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Il mio sogno di una vita a tre "emme"

27/12/2015  Medico, moglie e mamma. Annalisa Sereni ha sette figli, di cui uno Down. Qui racconta la sua storia.

«Stamattina sono andata in ambulatorio, ho visto dei pazienti, qualche informatore farmaceutico −  sono sempre in agguato (ride) – poi sono tornata a casa perché Gabriele non sta molto bene. Ora stavo rispondendo a delle mail di lavoro». Squilla il telefono, risponde, e poi continua: «Era una delle mie figlie. Anche lei non sta bene e devo andarla a prendere a scuola durante la pausa pranzo». Voilà, eccoci dentro una mattina come tante, nella vita di una mamma che lavora. Quella di Annalisa Sereni però è un po’ più complicata, anche se il libro, piccolo e prezioso, in cui la racconta si intitola Semplicemente una mamma (Edizioni San Paolo). Nelle prime pagine Annalisa confida un obiettivo che si era posta da piccola, quello delle tre “m”: moglie, medico, madre. «Ci sono riuscita», scrive, «ho un marito, dei figli e dei pazienti». Sette per la precisione, di figli. Nel libro li chiama: Ciugo, E, A, Fe, L’altra, Lei, Lui. Età: fra i 21 e i 3 anni. “Lui” è quello che questa mattina ha la tosse, l’ultimo figlio, quello amato, viziato e coccolato da tutti gli altri, nato con la sindrome di Down. 

Ma come si fa a gestire sette figli, fare il medico, tenere un blog e scrivere un libro allo stesso tempo?

«Diciamo subito che ho scelto la libera professione per avere la possibilità di organizzarmi secondo le esigenze della famiglia. In questo periodo ho ambulatorio tre volte la settimana, di mattina. Dico sempre che di medici è pieno il mondo e di mamma dei miei figli ce n’è una sola. Ma siccome la mia professione è anche una vocazione e una passione,   non riesco a farne a meno, non vorrei e nemmeno potrei farne a meno».

Nel libro lei scrive di essere sempre stata incoraggiata a seguire i suoi sogni e che nella sua famiglia d’origine il “vuoi” realizzarti nel lavoro era un “puoi”. È stato così?

«Non è stato facile fare la scuola di specialità e nello stesso tempo avere dei bambini. Gli ostacoli continuano a esserci, anche perché il contesto non facilita la conciliazione tra maternità e lavoro. Nonostante sia stato complesso, è stato più forte in me il desiderio di avere figli. Alla fine ho scelto la libera professione per non dover chiedere più niente a nessuno, per non dover più dire a un capo “aspetto un bambino”. So di donne costrette a firmare in bianco una lettera di dimissioni in caso di maternità. Questa è una gravissima ingiustizia, anche perché la maternità regala una capacità nuova di dedicarsi a più cose contemporaneamente, è un dono che ti fa la natura, ti insegna a ottimizzare i tempi, impari ad ascoltare le persone più di quanto facevi prima. Tutte cose che tornano utili anche sul lavoro. La donna può conciliare entrambi gli aspetti e ne ha il diritto». 

Lei ha sette figli, addirittura nei suoi sogni di bambina dovevano essere dodici. Eppure nel libro non pone la sua scelta come un “modello” che vale in assoluto…

«Ognuno deve essere libero. Non c’è scritto da nessuna parte che una famiglia debba essere composta da nove persone, o da sette, o da due. Però credo sia importante che ci sia generosità e apertura alla vita. Questi comunque sono discorsi che marito e moglie devono fare fra loro e davanti a Dio. Noi possiamo dire che i nostri figli ce li siamo cercati tutti».

L’ultimo suo figlio ha la sindrome di Down. Quando è arrivato cosa ha portato nella vostra famiglia?

«All’inizio un senso di tenerezza per la sua presunta fragilità. Dopo abbiamo aperto gli occhi sul fatto che era propria presunta, questa  sua fragilità, visto che ha rivelato una personalità fortissima, un carattere estremamente deciso. Però all’inizio quando sembrava piccolo e fragile l’abbiamo guardato come si guarda Gesù bambino nel presepe, con infinita tenerezza. Poi lui invece è potente, ci ha fatto iniziare tante cose. A me ha fatto aprire un blog, scrivere un libro, parlare con persone che prima neanche immaginavo avrei conosciuto. Gli altri figli sono stati responsabilizzati dalla sua nascita, così come da un’operazione complicata subita da un’altra sorella».

La famiglia si è unita di più?

«Sì, all’inizio anche nei confronti dell’esterno, forse. È scattato un meccanismo di difesa sin da quando era in pancia per proteggerlo – come dire – dagli sguardi indiscreti, di quelli che non hanno capito la sua nascita e condannano la sua esistenza. È stato un modo per dire: “Lui è nostro, guai a chi ce lo tocca” e “Lui è una ricchezza per noi, così come noi lo siamo per lui”. Adesso, più cresce e più è facile difenderlo. Si difende da sé, con la sua gioia di vivere. Ora chi lo guarda può capire che la sua vita è un dono. Tra l’altro, lui non le manda a dire a nessuno».

C’è bisogno di una cultura diversa sulla sindrome di Down?

«Quando è nato Gabri mi sono accorta che c’è tanta ignoranza. E che la maggior parte delle cose che mi dicevano erano panzane. Alla dimissione dall’ospedale mi hanno raccomandato di cambiarmi i vestiti dopo il contatto con gli altri figli, perché   lui aveva più possibilità di contrarre malattie. Se dovessi cambiarmi ogni volta, dovrei avere in casa un grande magazzino! Quando sono tornata a casa con Gabri la mia sesta aveva la scarlattina. Lui non l’ha presa».

Pregiudizi?

«Tantissimi. Tipo: “I Down sono buoni, dove li metti stanno, sarà come avere sempre un neonato”. Gabri non è così, ha un carattere molto forte, ride, scherza, gioca a nascondino con le sorelle, butta giù i giocattoli dalle scale esattamente come hanno fatto gli altri. Quando mi sono accorta che la maggior parte delle cose che mi dicevano erano puntualmente smentite ho pensato che fosse giunto il momento di dire la mia».

Le interruzioni di gravidanza in caso di sindrome di Down sono arrivate in alcuni Paesi, come l’Inghilterra, al 95 per cento.

«Per questo ho aperto un blog. Perché bisogna dire la verità e la verità è che questi bambini sono persone che hanno diritto di nascere, crescere, vivere, essere amate, educate. E poi perché, quando sei in gravidanza e scopri che hai un figlio con la sindrome di Down, l’unica cosa che ti dicono è: “Vai ad abortire”. Ed è una grossa frode, un inganno, perché questa non è la terapia. L’aborto non è mai la terapia».

La fede ti ha aiutato?

«Moltissimo, perché mi ha fatto vivere ogni figlio come un dono. Ma è questione di fede nell’uomo, più che in Dio, ritenere che ogni persona sia un valore in sé».

 

 
 
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