Oggi
compierebbe 76 anni padre Pino Puglisi, il sacerdote che faceva il
parroco vivendo le parole del Vangelo contro la cultura e la legge
dei Graviano, luogotenenti dei Corleonesi nel quartiere di
Brancaccio.
Ma
il 15 settembre è anche l’anniversario dei 20 anni dal suo
assassinio da parte della mafia di Palermo. Lui spiegava: «Venti,
sessanta, cento anni... la vita. A che serve se sbagliamo direzione?
Ciò
che importa è incontrare Cristo. Portare
speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto,
anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo».
Negli anni ruggenti di
Cosa nostra, “Tre P” - come si faceva chiamare scherzosamente -
non accettava i tradizionali compromessi e sottraeva i piccoli alla
scuola della mafia, interessandoli all’oratorio o al doposcuola in
vista della scuola media che voleva istituire nel quartiere, a
trent’anni dalla sua istituzione nel resto d’Italia.
Secondo Nando Dalla
Chiesa, presidente di Libera, don Pino «è appartenuto a una
generazione di uomini che ha lottato contro la mafia vivendo il
Vangelo. Ricordo che inizialmente molti dicevano con sufficienza:
“Figurati se adesso la mafia ha paura delle prediche!”».
La sua testimonianza, a
cui seguirà l’anatema di Giovanni Paolo II contro la mafia, è
stata importante anche per la Chiesa: «Pochi anni prima»,
ricorda Dalla Chiesa, «quando
Famiglia
Cristiana
pubblicava le prime inchieste sulla mafia, alcune parrocchie di
Palermo revocarono l’abbonamento per protesta».
Don Pino era
uno che parlava del Vangelo a tutti e anche ai mafiosi, come quando
diceva: «Mi
rivolgo ai protagonisti delle inutili intimidazioni che ci hanno
bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere
i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri
figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della
convivenza civile».
In questa direzione, si
spiega la conversione di Giuseppe Carini, che è poi diventato il
testimone chiave al processo contro i killer del parroco di
Brancaccio. Nel libro “Il miracolo di don Puglisi”, il
giornalista Roberto Mistretta ne ha raccolto la storia: «Carini era
un ragazzo che se non avesse incontrato don Pino avrebbe fatto una
brutta fine».
Era un ventenne
“normale” per Brancaccio: viveva nel mito del cugino della madre,
un mafioso “rispettato”, con orologio d’oro al polso, bei
vestiti e il macchinone, che un giorno scomparve per la lupara
bianca, ucciso facendo scomparire anche il cadavere. Giuseppe sognava
di vendicare i killer per poter presentarsi dai mafiosi di Brancaccio
ed essere ammesso nel mandamento del cugino.
"Se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto"
Poi incontrò don Pino:
all’inizio non gli fece una buona impressione, piccolo e con le
orecchie a sventola, ma quando gli parlò sentì un brivido. Il
sacerdote gli elencò i servizi che mancavano a Brancaccio, dal campo
da calcio alla scuola media e al centro per gli anziani, e i problemi
del quartiere, come le bambine che si prostituivano. «La sua
reazione»,
racconta Mistretta, «fu
quella che anche noi abbiamo spesso; rispose: “Ma io cosa ci posso
fare?”».
Don Pino gli chiese
un’ora di tempo alla settimana, che per un ragazzo che usciva a
cena con i figli dei mafiosi voleva dire prima di tutto una scelta di
campo. Gli mise in mano un pallone, chiedendogli di radunare i
bambini: non quelli che già venivano in Chiesa, ma gli “scanazzati”,
quelli che stavano in strada.
Nel libro, Carini
ricorda la prima partita: «Erano
luridi dalla testa ai piedi e portatori inconsapevoli di una
mentalità di morte. In quel momento però erano vivi, bellissimi,
infiammati d’entusiasmo. Di tanto in tanto anche don Pino tirava
qualche calcio a pallone, ma solitamente preferiva stazionare a bordo
campo. Osservava. Eravamo il suo gregge di brancaccioti. Non più
randagi tra la spazzatura. Lui era il pastore che andava tracciando
la nostra strada».
Come quando chiese ai
suoi ragazzi di andare “a riprendere per riportare in Chiesa” la
vara (il carro per le processioni) del patrono San Gaetano: era
custodito a casa di una famiglia in odor di mafia e il gesto era
dirompente. «La
mafia»,
spiega Mistretta «ha
sempre cercato di essere accolta dalla Chiesa, ma don Pino ha
incarnato un cambiamento assoluto; mettendo la Chiesa e la fede al
centro della sua opera educativa e pacifica, ha mostrato
un’alternativa, una nuova opportunità di vita, un sentiero di
riscatto. Vivendo
il Vangelo con gli altri e per gli altri. Ai ragazzi chiedeva: “Chi
siete? Cosa volete essere?” Per questo ha spaventato: quando la
mafia alza il tiro, è perché ha paura».
Con il passare del
tempo, Carini divenne sempre più uno dei più stretti collaboratori
di don Pino, che gli diceva: «Le
nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno. Lo
facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo
rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa
qualche cosa, allora si può fare molto...».
«Quando
toccherà a me, non mi lasciare solo»,
disse una volta al collaboratore. Il 15 settembre 1993, fu ucciso “in
odio alla fede”, come ha detto la Chiesa lo scorso maggio, quando è
diventato il primo prete beato martire di mafia. In quanto studente
di medicina, Carini gli fu accanto anche mentre il medico legale
eseguiva l’autopsia: «E
quando vidi la bara di legno aperta, e lui con la testa fasciata e
quel sorriso incredibile, capii che sarebbe iniziata la mia nuova
vita per onorare don Puglisi».
Ha
scelto di testimoniare
contro la mafia, di fare nomi e cognomi, anche
a costo di essere disconosciuto dalla sua famiglia e dover
tagliare tutti i contatti con la sua vita precedente, con la sua
terra, cambiando identità per entrare nel programma di protezione
dei testimoni. In fondo,
commenta
Mistretta,
«Giuseppe
Carini con la sua testimonianza di verità è il miracolo vivente di
don Puglisi».