Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose, nella cucina del monastero. In alto: nell'orto con carlo (Carlìn) Petrini, fondatore e animatore di Slow Food (foto di Nino Leto per Famiglia Cristiana).
Lo stupore c’è, ma in quantità contenuta. Un pizzico, il giusto, non di più. Proprio come il sale. Meraviglia, dunque. Però ci sta. E non solo per la prelibatezza delle portate che prepara, in primo luogo le “raviole” alle tre carni («Le cucino a Natale e per gli amici, seguendo una ricetta del mio Monferrato») o per i libri che ha scritto in materia, in ultimo, nel 2015, Spezzare il pane, edito da Einaudi. La storia, quella sua, particolare, e quella religiosa, in generale, parlano per lui. «Una nonna francese cuoca, un nonno panettiere: la cura della tavola me l’ha lasciata in eredità la mia famiglia. Il resto l’ha fatto la tradizione monastica».
Giovedì 6 ottobre, san Bruno, non a caso il giorno che il calendario dedica al fondatore dei Certosini, il monaco Enzo Bianchi riceve la laurea honoris causa dal professor Piercarlo Grimaldi, rettore dell’Università degli studi di Scienze gastronomiche. Tutto si svolge nella sede dell’ateneo, a Pollenzo, angolo verde della provincia di Cuneo, alla presenza di intellettuali, esperti, vescovi e dell’amico di sempre, Carlo Petrini, padre di Slow Food. «Pur nella povertà, i miei mi hanno trasmesso l’attenzione al cibo. Una volta giunto a Bose, l’orto è stato tra le prime cose che ho fatto. Vi coltivo l’insalata (in questi giorni ne sto trapiantando una specie particolare, la Montpellier), il sedano, le erbe aromatiche, i pomodori, i peperoni (ne ho di piccoli, i cui semi vengono dalla Spagna, e ne ho altri che arrivano dall’abbazia di Pannonhalma, in Ungheria). Ho bisogno che bellezza e bontà siano celebrate nel rapporto diretto con i frutti della terra».
Da sinistra: Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, con Carlo (Carlìn) Petrini. Foto di Nino Leto per Famiglia Cristiana.
Mangiar bene non significa banchettare sempre. La “gola” rimane un vizio capitale. E la crapula è da condannare. «La regola monastica di san Benedetto ha un capitolo intitolato De mensura cibi (“Della misura del cibo”)», osserva Enzo Bianchi. «Permette un quarto di vino a monaco a ogni pasto. Noi a Bose ci limitiamo a berlo la domenica e nelle feste. La misura indica sobrietà ed equilibrio. Il nostro rapporto con il mangiare detta anche la nostra salute psichica. Bulimia e anoressia sono là a testimoniarci che ci dev’essere un vero e proprio esercizio del cibo, una disciplina, una piena consapevolezza di quello che si fa».
«C’è chi osserva, a ragione, che la buona teologia nasce anche in cucina e sa sedersi a tavola», conclude Enzo Bianchi. «Non a caso le parole che indicano il “sapere” e il “sapore” hanno la stessa origine. Non a caso nella Bibbia c’è un verbo specifico che designa lo spezzare il pane, segno che il pane è per tutti e va distribuito. Non a caso la tradizione ebraica e quella cristiana invitano a pregare prima e dopo i pasti, un modo per evitare di gettarsi sul cibo con voracità consumistica e per generare un grazie. Preparare e consumare il cibo insieme al prossimo, ci fa scoprire che l’appetito dell’uomo è infinito perché non appartiene al corpo, ma all’anima».