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venerdì 04 ottobre 2024
 
 

Il mondo nel confessionale

08/02/2016  In occasione del Giubileo, il corpo di san Leopoldo Mandic, il santo cappuccino campione di misericordia, sarà esposto in San Pietro con Padre Pio.

Il mattino del 30 luglio 1942, padre Leopoldo si arrese al tumore maligno che lo aveva colpito all’esofago. Aveva 76 anni, di cui più di trenta trascorsi come confessore al convento dei Cappuccini di Padova. Una vita e un intero apostolato trascorsi in una minuscola, disadorna celletta-confessionale, quella che lui definiva «il salottino della cortesia», ad accogliere chiunque volesse chiedere perdono al Signore.

«Anche la sera precedente, a poche ore dalla morte, nonostante i tormenti della malattia, aveva continuato a confessare fino a ora tarda. Sono stato uno degli ultimi a entrare nella sua cella, come facevo tutte le sere», ci racconta fra Barnaba Gabini, cappuccino quasi centenario, del convento di Conegliano, uno degli ultimi in vita ad aver conosciuto l’umanità e la mansuetudine di padre Leopoldo Mandic (1866-1942), il piccolo grande confessore di origine dalmata, beatificato nel 1976 da Paolo VI e canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1983.

Ora, in occasione del Giubileo, le spoglie di questo “gigante della carità” saranno esposte dal 5 all’11 febbraio nella basilica di San Pietro, a Roma, insieme con quelle di Padre Pio, per poi rientrare nel convento-santuario padovano di Santa Croce. L’ha voluto papa Francesco, scegliendolo come uno dei patroni dell’Anno Santo.

Amatissimo da tutti, umili e potenti, colpiva subito quel suo modo di confessare: fermo nella dottrina, ma così ricco di umanità e di simpatia con quanti accorrevano da lui da ogni dove. «Non l’ho mai sentito lamentarsi della sua malattia. Era sempre nel confessionale, anche 12 ore al giorno, e fuori c’era la fila di fedeli ad attendere. Accoglieva tutti con amore, incondizionatamente», ricorda ancora fra Barnaba. «Ed era così ben disposto nei confronti del penitente che qualcuno dei confratelli cominciò ad accusarlo di dare troppo facilmente l’assoluzione», scambiando la sua comprensione per lassismo, per mano troppo larga.

Un giorno accolse un fedele a cui un penitenziere della basilica di Sant’Antonio aveva negato l’assoluzione. Lui, invece, lo mandò perdonato. Incontrandosi, in seguito, con quel frate inflessibile così gli motivò la sua scelta: «Lei, padre, confessa con la sua coscienza; io con la mia». Un’altra volta ebbe a rispondere: «Io troppo largo? È stato il Signore il primo a esserlo: mica io sono morto per i nostri peccati, ma il Signore. Più largo di così con il ladrone e con gli altri come poteva essere?». La sua umiltà e la sua capacità d’accoglienza conquistavano subito. Narrano i suoi biografi che un giorno un padovano che non si confessava da anni andò da padre Leopoldo, ma confusosi andò a sedersi al posto del frate. Mandic lo confessò inginocchiato per terra davanti a lui.

Ecco perché ancora oggi quella misera cella, forno d’estate e ghiacciaia d’inverno, è meta continua di pellegrinaggio scelta non solo da parte dei padovani, dei montenegrini e dei croati, che lo ritengono un loro santo, ma dai devoti che vengono da tutto il mondo. Al suo interno, su un leggio poggia un album dove chi entra può lasciare un pensiero. «Dal 1945 abbiamo raccolto 515 volumi, un vero scrigno di devozione e fede. I più grandi miracoli spirituali sono avvenuti tra queste mura, durante le confessioni», esclama il rettore del santuario di San Leopoldo a Padova, padre Flaviano Gusella. Confessionale, come ricorda la lapide all’ingresso, che si salvò miracolosamente dal bombardamento aereo del 14 maggio 1944 che invece distrusse la chiesa vicina. Evento che fu profetizzato da Mandic.

Il rettore rammenta anche l’altra «grande passione» del santo, anzi il suo «sogno» ricorrente: rivedere l’amata Chiesa ortodossa ricongiungersi con la Chiesa cattolica. «Una santa ossessione – dice padre Gusella – che lo portò a precorrere i tempi e a diventare, oltreché profeta di misericordia, anche dell’ecumenismo spirituale».

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A Padova, alla scoperta di san Leopoldo Mandic
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