«La
consuetudine alla violenza, alla prevaricazione, all'abuso, è
soprattutto dell'uomo. Non “mostri”, che impazziscono
improvvisamente, ma persone apparentemente normali e mediamente
inserite nel tessuto sociale. Le consuetudini, le relazioni
interpersonali, la cultura sessista, la virilità: sono tutti
elementi che vanno ripensati». Così Simonetta Tregnago, presidente della Commissione per la
realizzazione delle Pari opportunità tra uomo e donna, della Regione
Veneto.
Maschio, uno su tre
straniero (dato che rispecchia la maggior presenza di stranieri tra i
detenuti), età media 46 anni, un quarto di essi vive, almeno
formalmente, una realtà di coppia, e nella maggioranza dei casi è
anche genitore di uno o più figli. È
questo il profilo degli autori di violenza domestica, tracciato
dallo studio “Violenza in famiglia: l'altra faccia della realtà –
Casistica e prima analisi su autori condannati per reati di violenza
domestica nel Veneto”, promosso dalla Commissione regionale Pari
opportunità, e realizzato dall'Osservatorio nazionale violenza
domestica (ONVD), in collaborazione con l'Ufficio esecuzione penale
esterna (UEPE) e con il Dipartimento amministrazione penitenziaria
del ministero di Giustizia.
«Il
titolo è eloquente»,
spiega la dottoressa Marina Bacciconi, responsabile scientifica
dell'Osservatorio. «L'analisi
del fenomeno non può prescindere dal prendere in esame, oltre che le
vittime, anche gli autori di violenza, i quali motivano le loro
azioni con la gelosia, oppure adducono ragioni di natura economica,
soprattutto dopo una separazione/divorzio, in relazione alla gestione
e al mantenimento dei figli. Infatti, la “violazione degli obblighi
di assistenza familiare” segue, a brevissima distanza, i
maltrattamenti e le lesioni personali quali reati più frequenti. Vi
sono anche 5 casi di omicidio: 3 maschi e 2 femmine, perché anche le
donne – pur se in misura minore - commettono violenza».
La rilevazione,
effettuata presso l'UEPE di Verona (città dove ha sede anche
l'Osservatorio), nel secondo trimestre del 2012 – poi pubblicata a
settembre 2013 – ha preso in esame 24 persone condannate; dalle
case di reclusione sono arrivate due schede da Venezia (che ospita
solo donne) e quattro da Padova.
«I
numeri, non solo quelli emersi dalla nostra indagine, ma anche quelli
dell'Eurispes (in Italia, tra il 2009 e il 2010, si sono consumati
circa 10 omicidi in famiglia al mese)»,
evidenzia Bacciconi, «indicano
come sia indispensabile un intervento organico, mirato, coordinato,
tanto nelle azioni di prevenzione, che in quelle di contrasto e
repressione. Per questo, il nostro è un approccio multidisciplinare.
Lavoriamo assieme alle strutture sanitarie (Pronto soccorso, Suem
118, medici di medicina generale, pediatri), Forze dell'Ordine,
magistrati, strutture di esecuzione penale».
Si dice sempre che le
donne denunciano molto poco rispetto all'entità del fenomeno della
violenza: «Non
è vero»,
specifica Bacciconi.
«Dal
2006, al 2012, le denunce sono passate dall'11 al 50%. Però, se per
ottenere una sentenza, servono in media cinque anni, chi me lo fa
fare? Reato, condanna e modi di espiare la pena devono susseguirsi in
tempi “ragionevoli”. Perché, da una parte, vige la necessità
della “certezza della pena”, che dev'essere congrua alla reale
gravità della violazione di un diritto umano e deve rispondere alle
finalità costituzionali di “rieducazione” e “redenzione” del
reo; dall'altra, deve dare forza e sollievo alle vittime».
Oltre che,
naturalmente, proteggerle. «Ed
ecco una contraddizione. Da un lato, lo Stato considera la vittima
una persona debole, tanto da stanziare risorse per l'accompagnamento
medico, psicologico, per realizzare case rifugio..., dall'altro lato,
pretende che quella stessa vittima sia in grado di portare fino in
fondo un iter giudiziario pesante, fatto di interrogatori, perizie,
processi»,
prosegue la dottoressa.
«A
mio avviso, se c'è un reato, lo Stato deve decidere “se” e come
intervenire. Il rispetto dovuto a equilibri di certo delicati, come
quelli che coinvolgono una coppia o il rapporto genitori-figli, non
possono e non devono determinare l'impunità di alcuni reati, in uno
Stato di diritto e democratico. Va detto, poi, che entrare nella
testa di una donna che vuol bene a un uomo, è difficilissimo. Non
dimentichiamo che in Italia delitto d'onore e nozze riparatrici sono
stati consuetudine fino a pochi anni fa. Non possiamo pensare di
poter cambiare una cultura in tempi brevi».
Come considera il
decreto di contrasto al femminicidio, tramutato in legge proprio oggi
dal Senato (dopo l'approvazione della Camera avvenuta mercoledì 9
ottobre)?
«Non
mi convince»,
risponde Bacciconi.
«Intanto,
c'è un errore di fondo: il tema dell'omicidio di genere non può
essere mescolato con questioni di sicurezza (il testo della legge –
“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto
della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di
commissariamento delle province” – è diviso in quattro parti;
solo la prima si occupa di femminicidio, le altre contengono norme in
materia di tutela dell'ordine pubblico, per il contrasto di fenomeni
di particolare allarme sociale, ndr).
Sono questioni distinte. E poi femminicidio è una parola che non ha
senso. Il legislatore ha già previsto in altri codici reati quali
l'omicidio, il tentato omicidio, le lesioni, gravi e gravissime, le
aggravanti. Direi che le leggi già c'erano tutte, ma bisogna
applicarle».
L'ONVD è stato
istituito nel 2006, a seguito di un Accordo di collaborazione tra
l'Osservatorio epidemiologico nazionale, sulle condizioni di salute e
sicurezza negli ambienti di vita dell'Ispesl (Istituto superiore per
la prevenzione e la sicurezza sul lavoro) e l'Università degli studi
di Verona, con l'obiettivo di realizzare studi, ricerche, indagini
epidemiologiche sul fenomeno della violenza domestica, termine con il
quale l'Organizzazione mondiale della sanità intende “ogni forma
di violenza fisica, psicologica o sessuale, e riguarda tanto soggetti
che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima
di coppia, quanto soggetti che all'interno di un nucleo familiare più
o meno allargato, hanno relazione di carattere parentale o
affettivo”.