«Voglio vivere senza odio. Voglio
farmi una famiglia, una casa. Non
essere continuamente ossessionato
dall’idea della vendetta, perché
sarebbe un incubo che ti tiene prigioniero
del passato. Io non odio».
Che in bosniaco si dice: «Ja ne mrzim».
Sta tutto rinchiuso in queste sue tre ultime
parole: Zijo Ribic, il sopravvissuto, ha deciso di
perdonare i suoi carnefici. Ed è iniziata un’altra
storia. Per lui e per tanti che hanno provato lo
stesso orrore che ha vissuto lui, vittime dell’odio
razziale. Erano gli anni Novanta e nella
Bosnia-Erzegovina si consumava contro il
suo popolo l’ultimo atroce genocidio che ha
conosciuto l’Europa, culminato nel luglio del
1995 con l’eccidio di Srebrenica.
La vita del rom bosniaco Zijo Ribic, oggi
32enne, viene stravolta per sempre nel luglio
del 1992 quando un gruppo paramilitare composto
da sette cetnici invade il piccolo villaggio
Skocic, località della Bosnia orientale a 14 km
dal confine con la Serbia, dove Zijo viveva con
i genitori, sei sorelle e un fratello.
I soldati del gruppo soprannominato "i cetnici di Simo", dopo aver stuprato più volte la
sorella maggiore Zlatija, sgozzano davanti ai
suoi occhi tutta la famiglia che viene gettata
in una foiba. Miracolosamente sopravvissuto
alla strage, perché il fendente al collo lo ferisce
soltanto, il bambino viene salvato dai soldati
dell’esercito regolare serbo che si rifiutano di
riconsegnarlo nuovamente ai massacratori
della sua famiglia. «Non so ancora spiegarmi
come ho fatto a salvarmi. Ma certo Dio lo ha
voluto», commenta il giovane.
Zijo Ribic è il primo rom che ha avuto il coraggio
di testimoniare contro i crimini di guerra
commessi in Bosnia. A dargli la forza di rompere
un silenzio di 22 anni è stata la sociologa
Natasha Kandic, già direttrice dello Human
Law Center di Belgrado, nonché membro del
consiglio d’amministrazione del Fondo volontario
delle Nazioni Unite per le vittime della
tortura, che lo incontrò in Bosnia nel 2006 e gli
offrì il suo aiuto.
«È stato un incontro che mi ha cambiato la
vita», spiega Zijo: «Con lei ho trovato la forza di
raccontare pubblicamente la mia storia e di far
avviare il processo contro i responsabili della
morte dei miei familiari. Capii che ero rimasto
vivo al massacro di Skocic proprio per poter testimoniare su
quanto accaduto e chiedere giustizia. Non
mi interessava la vendetta. Volevo rompere
quella spirale di odio che aveva intrappolato i
miei coetanei», afferma con passione.
«I miei genitori, d’altra parte, non mi hanno
insegnato a odiare. Nel mio villaggio rom
la modalità di vita escludeva qualsiasi forma
di violenza. Si viveva in pace tra noi e con i
bosniaci stanziali. Tanto è vero che, iniziata la
guerra, non ci siamo preoccupati più di tanto
dei serbi, perché i rom non hanno mai
fatto guerre», osserva.
Il processo al Tribunale per i crimini di guerra
a Belgrado avviato nel 2009 contro i sette cetnici
è giunto a una prima sentenza di condanna
nel 2013. Ripreso in secondo grado, si è concluso
nel 2015 con un’altra sentenza che ha capovolto
la prima: gli imputati sono stati assolti non
perché non fossero responsabili della strage,
ma perché risultò impossibile determinarne
le responsabilità individuali. Un processo farsa,
sul quale ha scritto parole eloquenti la Kandic:
«In un tempo migliore, che dovrà venire,
la Serbia si vergognerà di questa sentenza». Lo
stesso presidente del Tribunale di Belgrado ha
fatto una dichiarazione, poi censurata, in cui affermava
di vergognarsi di essere serbo.
Zijo non può dimenticare quel giorno:
«Quando il giudice lesse la sentenza, i carnefici
della mia famiglia mi risero in faccia.
Ma rimasi impassibile. Voglio restare normale.
Non voglio odiare, neanche ora», dice caparbiamente
il giovane, che oggi è tornato nel suo Paese,
assieme alla fidanzata Ramiza. Vive a Tuzla
facendo il cuoco in un albergo e lottando per
un futuro di convivenza pacifica.
Ha scritto su di lui Jrfanka, una sua concittadina:
«In molti non lo capiranno. Alcuni
addirittura potranno condannarlo per quello
che ha fatto, altri non ci crederanno. Ma lui ha
perdonato davvero».