Il 10 dicembre John O’Keefe e i coniugi
May-Britt e Edvard Moser riceveranno
dal re di Svezia il Premio
Nobel per la Medicina e la
Fisiologia. La scoperta che li porterà a
Stoccolma e a dividersi quasi un milione
di euro, riguarda il senso dell’orientamento
nello spazio. In breve, questi tre
scienziati hanno scoperto il Gps nascosto
nel nostro cervello. Per capire il loro
lavoro, forse utile nella cura della malattia
di Alzheimer, dobbiamo però fare parecchi
passi indietro.
Noi siamo la nostra memoria. Un filo
sottile collega i ricordi dell’infanzia, i visi
e le parole dei nostri genitori, le nozioni
imparate a scuola, il primo amore, la
famiglia che abbiamo formato, le esperienze
di lavoro, gioie e dolori della nostra
vita fino al momento che stiamo vivendo.
Questa collana di ricordi tenuti
insieme come perle costituisce la nostra storia esistenziale, la nostra personalità,
e la nostra stessa autocoscienza.
Per millenni la memoria è stata un mistero
intrecciato con l’enigma del tempo.
Il passato non c’è più, il futuro non c’è
ancora, il presente è un istante inafferrabile.
Dunque che cos’è il tempo? Sant’Agostino
nell’undicesimo libro delle Confessioni
diceva di saperlo benissimo, a
patto che nessuno glielo chiedesse. Per
limitarci all’esperienza di ognuno di noi,
il tempo è il protendersi della memoria
verso il passato, la continuità dei nostri
ricordi, e quindi la capacità di percepire
il presente e proiettarci negli istanti che
verranno. Così si ritorna al problema iniziale:
che cos’è la memoria?
Pur ignorando la risposta, gli antichi
sapevano come potenziarla. Era un’arte
che la mitologia greca faceva risalire
a Mnemosine, la madre delle Muse, protettrici
delle arti. Simonide di Ceo, poeta vissuto cinque secoli prima di Cristo, fu
il fondatore della mnemotecnica, un insieme
di procedure per fi ssare i ricordi,
dote preziosa in un’epoca in cui la cultura
si trasmetteva quasi soltanto per via
orale.
Cultori della mnemotecnica furono
Platone, Aristotele, Cicerone, San
Tommaso, Pico della Mirandola. Una
delle tecniche consisteva nell’associare
i ricordi a luoghi diversi e ad azioni che
in quei luoghi avvenivano. Poi, con il filosofo Kant, tempo e spazio diventarono
“categorie a priori” con cui accediamo
alla conoscenza del mondo. In parole
più moderne, meccanismi innati della
mente. Restava però la domanda fondamentale
sulla localizzazione e sulla vera
natura di questi meccanismi.
Negli ultimi cinquant’anni la biologia
ha trovato risposte che segnano enormi
progressi. Fino alla metà del Novecento
gli scienziati non avevano la minima idea di dove fosse localizzata la memoria
nel cervello e come funzionasse.
Per motivi etici è impensabile fare esperimenti
sul cervello umano. Talvolta però è
la natura – o il destino – a fare “esperimenti”
causando patologie di origine traumatica o
fi siologica. Per questo la scoperta dei meccanismi
della memoria è legata a casi clinici
famosi: gli scienziati hanno capito il funzionamento
della memoria studiando pazienti
nei quali la memoria non funzionava.
Nel 1953 un paziente epilettico di 27 anni,
noto nella letteratura scientifi ca con le
iniziali H.M. subì l’asportazione di una parte
del cervello, e precisamente l’ippocampo
e dei lobi temporali. H.M. guarì dall’epilessia
e mantenne la sua personalità, ma
perse la capacità di fissare nuovi ricordi. Fu
come se la sua vita si fosse fermata a 27 anni.
Che cosa avviene quando registriamo
un ricordo? In che cosa diff eriscono la memoria
a breve termine con cui componiamo
un numero telefonico appena letto e la
memoria a lungo termine dove registriamo
per sempre un episodio, un concetto, un’esperienza?
Fu il caso di H.M., studiato per
trent’anni da Brenda Milner in colloqui quasi
quotidiani, a dimostrare il ruolo decisivo
dell’ippocampo.
Nato a Brooklyn nel 1926, H.M. è morto
il 2 dicembre 2008. Ora che sono venuti
meno i vincoli di riservatezza, possiamo svelarne il nome: si chiamava Henry Gustav
Molaison. Era diventato epilettico dopo una
caduta dalla bicicletta all’età di 9 anni. Poiché
gli era impossibile condurre un’esistenza
normale, nel 1953 si decise a quel pesante
intervento, eseguito da William Scoville
all’Hartford Hospital. H.M. è un martire della
scienza, dobbiamo essergli grati.
Rimaneva però da capire come i ricordi
si fi ssino nella memoria a lungo termine.
Eric Kandel, nato nel 1919 a Vienna, pensò
che per aff rontare questo problema complicatissimo
bisognava lavorare su un modello
biologico semplice. Lo trovò nell’Aplysia
californica, un mollusco con appena 20 mila
neuroni, un cinquemilionesimo del cervello
umano. Scoprì così che l’Aplysia, dopo
essere stata più volte stimolata con un getto
d’acqua o una lieve scossa elettrica, ne registra
il ricordo modifi cando stabilmente alcune
sinapsi, cioè alcuni contatti tra i neuroni.
Un meccanismo biologico identico agisce negli animali superiori e nell’uomo.
Insomma, grazie alla plasticità cerebrale,
nel suo piccolo l’Aplysia memorizza come
noi e potremmo persino dire che “impara”.
Per questo lavoro Kandel nel 2000 ha ricevuto
il Nobel per la fi siologia. Oggi è noto
che i ricordi non hanno una sede privilegiata,
sono sparsi in varie zone della corteccia
cerebrale, dove risiedono in nuove sinapsi,
cioè in nuovi contatti tra neuroni.
L’ippocampo
ha la funzione di smistarli, non di
registrarli. Ecco perché H.M. non poté più
costruirsi nuovi ricordi dopo l’asportazione
chirurgica di questa parte del cervello ma
conservava i ricordi più antichi, compresi
quelli di tipo spaziale.
Ma dove sta la memoria dei luoghi, la mappa
cerebrale dell’ambiente intorno a noi? In
che modo progettiamo l’itinerario da un posto
all’altro della nostra città o, quando siamo
in auto, da una città all’altra? Sono queste le
risposte che hanno trovato i tre scienziati vincitori
del Nobel per la Medicina 2014.
In auto molti usano il navigatore collegato
al Gps, Global positioning system, una flotta
di 30 satelliti in orbita intorno alla Terra,
ma l’evoluzione biologica ha risolto il problema
milioni di anni prima dedicando una
specifi ca parte del cervello all’orientamento
nello spazio.
John O’Keefe, May-Britt e
Edvard I. Moser, hanno individuato nell’ippocampo
il nostro sistema di orientamento
naturale. Nato a New York nel 1939, dottorato
di ricerca in Canada, nel 1971 John O’Kefee
fece il primo passo. Studiando alcuni topolini
liberi di muoversi in una stanza, si
accorse che mentre essi stavano in un dato
punto del locale si attivava nel loro cervello
una certa zona dell’ippocampo e che la zona
attiva cambiava quando i topolini si spostavano
in un altro punto.
Esperimenti successivi gli permisero di
appurare che le zone dell’ippocampo interessate
non si attivavano solo sotto l’input
visivo, ma erano qualcosa di stabilmente
impresso nelle cellule cerebrali, come se
nell’ippocampo fossero memorizzate molte
mappe diverse che il topolino “consultava”
in ambienti diversi.
O’Keefe concluse che la mappa della
stanza in qualche modo era disegnata in
particolari cellule dell’ippocampo dedicate
alla percezione dello spazio e pubblicò questo
risultato sulla rivista Brain research con
un titolo cauto: “L’ippocampo come mappa
spaziale.
Evidenze preliminari di unità attive
in ratti liberi di muoversi”. I dati furono
confermati in un altro articolo del 1976 su
Experimental neuroloy.
Trent’anni dopo May-Britt e Edvard Moser,
norvegesi, compagni di studi all’Università
di Oslo, andarono a sviluppare le loro
ricerche nel laboratorio di O’Keefe all’University
college di Londra e qui ripresero lo
studio sull’orientamento spaziale dei topolini.
Scoprirono, così, che le cellule nervose
attivate erano concentrate in una particolare
zona dell’ippocampo, la corteccia entorinale,
e attivando poche cellule per volta si
accorsero con grande stupore che in essa è
tracciata una griglia a esagoni (tipo alveare)
che possiamo considerare un sistema di coordinate
analogo alla latitudine e alla longitudine
sulla superfi cie terrestre.
Negli ultimi anni su pazienti operati al
cervello è stato possibile dimostrare che
una griglia simile funziona anche nell’ippocampo
dell’uomo. A riprova, i malati di
Alzheimer, che negli stadi iniziali della patologia
subiscono danni alla corteccia entorinale
dell’ippocampo, spesso hanno diffi -
coltà nel riconoscere i luoghi e nel ritrovare
la strada di casa. Le ricerche di O’Keefe e
dei coniugi Moser possono quindi avere ricadute
nella cura dell’Alzheimer e fornire
un modello applicabile allo studio di altre
funzioni cognitive superiori, dalla memoria
al ragionamento logico fi no alla capacità di
progettare.