Abituati a vincitori del Nobel per la letteratura a volte poco noti, altre pressoché sconosciuti, non capita spesso di potere senza esitazione conoscerne il volto e l'opera. Ma così è per Bob Dylan, 75 anni, al quale oggi il Comitato di Stoccolma ha conferito il più prestigioso riconoscimento. Pochi si chiederanno «ma chi è?» o «cosa ha scritto», poiché il suo nome è noto e il testo della sua più celebre canzone, tradotto in italiano, è nei libri di scuola.
Dylan, alias
Robert Allen Zimmerman, nato il 24 maggio del 1941 a Duluth nel Minnesota da una famiglia di origine ebraica, come molti ragazzi di allora si innamorò e si avvicinò alla musica grazie alla radio e sempre seguendo il copione delle biografie dei grandi musicisti suonò la chitarra elettrica e il pianoforte, con varie band fondate e sciolte, da ragazzo alla scuola superiore. Solo in un secondo momento decise che la chitarra acustica sarebbe stato il “suo” strumento. Ancora oggi, insieme all’immancabile armonica a bocca, è lo strumento che lo caratterizza. E che meglio accompagna
il suo particolare timbro di voce. Non sempre piacevole, nasale, ma inconfondibile.
Scelse un nome d’arte che, alla luce del premio ricevuto, è sicuramente un programma. Decise, infatti, di chiamarsi Dylan in omaggio al poeta gallese
Dylan Thomas. Un premonizione. Nella sua musica le parole sarebbero state importanti come lo sono nella poesia e nella letteratura.
Da allora tanti capolavori e temi impegnati:
Blowin’ in the wind il più celebre, un manifesto contro la guerra nel Vietnam; l’ambientalismo in
Hard Rain’s A-Gonna Fall; i diritti civili in
The Times they are a-changing; l’ingiustizia sociale in
Hurricane e anche l’amore in
Just like a woman (scritta, si dice, per Joan Baez) e
Sara (dedicata alla prima moglie). E poi numerose altre, storie narrate in forma di canzone, come
Mr. Tambourine Man, Romance in Durango,
Knockin'on heaven's door, Forever young, Like a rolling stone o
It's All Over Now Baby Blue.
Inserito nel 2005 al secondo posto nella classifica voluta dalla rivista Rolling Stones per celebrare i primi 50 anni del Rock and Roll (al primo i Beatles), in realtà la sua musica non è così facilmente classificabile. Nella sua lunga carriera ha cantato diversi generi tra cui anche il rock, il jazz e lo spiritual ma il folk è quello che ha scelto sin da ragazzo perché, come racconta, lo ritenne il più serio e quindi il più adatto per raccontare le sue storie e scrivere le sue parole.
Quelle storie e quelle parole che oggi lo hanno posto tra i grandi della letteratura vincitori di un premio solitamente attribuito a scrittori, drammaturghi e poeti. Mai a un cantautore. Uomo dalla movimentata vita sentimentale (due mogli e cinque figli), un’importante e mitica relazione con Joan Baez (due giganti della musica di protesta insieme…), una personalità difficile da incasellare. Quando nel 2007 il regista Todd Haynes ha voluto raccontare la sua vita nel film Io non sono qui scelse sei attori diversi, ognuno dei quali ha rappresentato nel film un aspetto diverso della vita e della musica di un solo, ma sfaccettato e complesso, Bob Dylan.
Da giovane dichiarò in un’intervista: «Non ho religione. Ho provato un mucchio di religioni diverse. Le Chiese sono divise. Non riescono a mettersi d'accordo, e nemmeno io. Non ho mai visto un dio, non posso dire niente finché non ne vedrò uno». Si narra che visse varie conversioni e gli si attribuiscono dichiarazioni di appartenenza alla fede ebraica e successivamente cristiana, in realtà ha mostrato che il suo bisogno di fede lo ha sempre trovato e manifestato nei valori della sua musica. Molti suoi fan dovettero però digerire la sua scelta di cantare Knockin’ on heaven’s door, A hard rain’s gonna fall e Blowin in the wind al Congresso Eucaristico di Bologna davanti a Papa Wojtyla nel 1997.
La motivazione del premio comunicata dalla giuria, «per aver creato una nuova espressione poetica nell'ambito della tradizione della grande canzone americana», è forse riduttiva e non tiene conto di quanto la sua musica, non sempre facile ma comunque capace di suscitare passioni ed emozioni, abbia rappresentato un’epoca, gli anni della rivolta giovanile e delle lotte per i diritti civili, e influenzato non solo il suo Paese. Oggi possiamo dire che con lungimiranza due nostri grandi cantautori hanno valorizzato a modo loro le parole di un Nobel. De Andrè e De Gregori, in epoche diverse, hanno attinto alla sua musica. Non solo come ispirazione ma riprendendo e traducendo le parole di molte sue ballate.
Fabrizio De Andrà scrisse e cantò nel 1974 Via della povertà (traducendo Desolation Row) e Avventura a Durango nel 1978 (Romance in Durango). Con la particolarità del ritornello in napoletano (Nun chiagne Maddalena Dio ci salverà…. ) ha saputo esaltare la tradizione popolare dell’originale di Dylan. Più recentemente nel 2015 Francesco De Gregori ha pubblicato il suo ventunesimo album, Amore e furto, interamente composto da brani tradotti di Bob Dylan. Oggi dichiara la sua soddisfazione: «Vorrei dire non è mai troppo tardi. Il Nobel assegnato a Dylan non è solo un premio al più grande scrittore di canzoni di tutti i tempi ma anche il riconoscimento definitivo che le canzoni fanno parte a pieno titolo della letteratura di oggi e possono raccontare, alla pari della scrittura, del cinema e del teatro, il mondo e le storie degli uomini».