Una folla enorme e silenziosa, gli sguardi rivolti verso il cielo. Un lungo serpentone per la strade della rive droite. Sembrava il pubblico di un concerto, in attesa di un idolo. Ed erano i parigini e i turisti che guardavano increduli l’incendio di Notre-Dame. Alcuni in lacrime. Altri – o gli stessi – in preghiera. Un’esclamazione di stupore e qualche urlo isolato soltanto al crollo della guglia più alta, la flèche che dominava il centro di Parigi. Come se un sentimento di irrealtà di fronte al terribile spettacolo si fosse improvvisamente diffuso nella capitale.
Ero lì, tra la folla, per caso. E ho visto bruciare il tetto della cattedrale, mentre attorno si moltiplicavano le ipotesi sulle cause. Il primo pensiero, subito scartato, era per un atto terroristico: molte volte Notre-Dame è stata presa di mira, ma per fortuna mai colpita. Poi, le ipotesi più probabili: i lavori di restauro, un cortocircuito, un’imprudenza.
Crollava un simbolo della città e un luogo dell’anima, caro a tutti i cristiani. Non soltanto per la reliquia più preziosa custodita nel suo tesoro, la corona di spine che secondo la tradizione avvolse il capo di Gesù sulla croce. Ma per le tante storie di fede e di devozione popolare, di conversioni – celebre quella del poeta Paul Claudel nel giorno di Natale del 1886 –, di cerimonie solenni, di trattati di pace, di concerti sublimi con il coro di voci bianche che ogni giorno cantava i vespri e le altre ore canoniche.
Davanti a noi bruciava un’intera foresta – per la costruzione del sottotetto furono necessarie più di mille e trecento querce – e otto secoli e mezzo di storia. E il legame affettivo con la cattedrale si manifestava in tutta la sua eloquenza nei volti della folla. Perché Notre-Dame non era, non è soltanto un edificio di pietra, ma un organismo vivo, un universo spirituale posto sotto la protezione della Vergine che qui regna nelle statue dei portali della facciata centrale e nelle ampie vetrate del coro.
Vista dal retro, dalla riva sinistra della Senna, sembra un enorme vascello arenatosi nell’isola della Cité, il nucleo più antico di Parigi. Fu costruita a cominciare dal 1160 al posto di tre antichi santuari, nello stile che sarebbe stato chiamato gotico e che andava imponendosi in tutta l’Europa, uno stile cittadino, a differenza del prevalentemente monastico e rurale romanico. E secondo una nuova concezione dello spazio, con la luce che si riversava da ampie vetrate. Perché «Dio è luce», scrivevano i teologi medievali. E la sua casa doveva rifletterne la bellezza.
Voluta dall’arcivescovo Maurice de Sully, la cattedrale divenne subito il cuore pulsante di quello che allora era un borgo di medie dimensioni e già un centro internazionale, con i collegi della vicina Sorbona in cui venivano a studiare giovani di numerose nazionalità. I lavori durarono per più di due secoli, senza mai concludersi per davvero, come capita per edifici di queste dimensioni che necessitano di interventi continui e di rifacimenti. Un’impresa gigantesca, una costruzione labirintica, con le sue cappelle e i suoi luoghi segreti che affascinarono gli scrittori e furono all’origine di molte leggende. Come quella del gobbo di Notre-Dame, il deforme Quasimodo, del malefico arcidiacono Frollo e della bella gitana Esmeralda, raccontata da Victor Hugo in uno dei suoi romanzi più noti e poi in decine di pellicole cinematografiche, fino ai cartoni animati disneyani. Senza dimenticare le canzoni di Edith Piaf, Léo Ferré, Charles Trênet.
Sembra impossibile doverne parlare al passato. Mentre l’incendio continua a minacciare anche la Torre Nord e si teme per la sopravvivenza dell’intera struttura. E qualcuno ricorda i versi di Charles Péguy che traduco liberamente: se dipendesse dalle nostre povere virtù, questo vascello se ne andrebbe verso il cielo come il guscio vuoto di una nocciola rosicchiata da uno scoiattolo.
O come fumo, caligine su una Parigi mai così cupa.