Un robusto filo rosso lega Bruxelles
e Parigi. Con la capitale
francese, le sue periferie inquiete
e ribelli, i 2,3 milioni di
abitanti dell’area metropolitana
e i 12 milioni della regione Île de
France, in tema di terrorismo relegata
al ruolo di gregaria della piccola (180
mila abitanti), modesta e appartata
capitale belga. A Bruxelles si erano
procurati le armi i terroristi che colpirono
la redazione di Charlie Hebdo
nel gennaio 2015 e i loro complici che
fecero strage nel supermercato ebraico.
A Molenbeek, è rimasto latitante
per oltre tre mesi Salah Abdeslam,
il kamikaze che non si fece saltare a
Parigi negli attentati del novembre
2015. Questo significa che nella grande
Francia, dove gli immigrati dai Paesi
islamici sono il 10% della popolazione,
c’è un potenziale serbatoio di giovani
intolleranti arruolabili dal jihadismo.
Ma nel piccolo Belgio, dove gli immigrati
con tale origine sono meno
del 6%, c’è qualcosa di forse più pericoloso:
una base, una rete, una struttura
logistica. Solo così, tra l’altro, si
spiega come i terroristi che hanno
colpito all’aeroporto e nella metropolitana
di Bruxelles abbiano potuto organizzare
una simile strage nelle poche
ore passate dopo l’arresto di Salah.
NESSUN PRIMO DELLA CLASSE.
L’ultimo
massacro ha spinto molti a puntare
l’indice contro le autorità belghe, in
particolare contro le forze di sicurezza.
Ma è una reazione isterica, una caccia
al colpevole che non ha senso in un’Europa
che si dice unita, ma dove il terrorismo
ha saputo colpire a piacimento:
ora in Belgio, ieri in Francia, l’altroieri
in Gran Bretagna e in Spagna. In
più, basta guardare all’ordine sparso
con cui gli stessi Paesi provano ad affrontare
il problema laddove l’Isis ha
le sue radici, per esempio in Siria o in
Libia, per capire che nessuno può far la
predica agli altri.
Ciò che davvero serve, ora, è rendersi
conto che una rete come quella
attiva in Belgio non può sopravvivere
se non è finanziata. Gli attentati costano
poco, tutto il resto costa molto
documenti, covi, complicità, viaggi.
Bisogna tagliare il cordone ombelicale
del denaro che finanzia il jihadismo.
Da anni sappiamo che la più importante
fontana dei soldi sgorga nelle
petromonarchie del Golfo Persico ed
è incanalata verso l’estremismo dalla
galassia di organizzazioni benefiche
e Ong che operano da quelle parti. O
interveniamo lì, anche a costo di dispiacere
a qualche “alleato”, o la nostra
sicurezza sarà sempre a rischio.
A questo proposito sarà utile notare
che proprio Bruxelles è stata la
prima città d’Europa a ospitare un
grande Centro islamico sponsorizzato
dall’Arabia Saudita. Avvenne nel
1969, quando il re Baldovino del Belgio
accolse il principe Faisal e gli offrì, per
un affitto del tutto simbolico della durata
di 99 anni, il Padiglione del Cinquantenario.
Da allora il Centro è stato
monopolizzato dai predicatori sauditi,
fedeli alla versione wahabita dell’islam,
una delle più integraliste al mondo.
Divenuto re Faisal è poi passato alla
storia come un “modernizzatore” ma
alla diffusione del wahabismo fu sempre
devoto. Nel 1962 aveva già fondato
la Lega islamica mondiale, il cui scopo
è sostenere le comunità islamiche nel
mondo e diffonderne la dottrina. Si
calcola che da allora l’Arabia Saudita
abbia versato nelle casse della Lega più
di un miliardo di dollari.