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mercoledì 09 ottobre 2024
 
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Il Papa a preti e suore del Cile: «La vocazione non prevede selfie»

17/01/2018  «Non esiste il “selfie vocazionale”, non esiste. La vocazione esige che la foto te la scatti un altro: che possiamo farci? Le cose stanno così» Il Popolo di Dio non ha bisogno di supereroi, aspetta pastori. Il testo integrale del bellissimo discorso di papa Francesco ai religiosi del Cile

Cari fratelli e sorelle, buonasera.

Sono contento di condividere questo incontro con voi. Mi è piaciuto il modo con cui il Cardinal Ezzati vi ha presentato: “Ecco, ecco le consacrate, i consacrati, i presbiteri, i diaconi permanenti, i seminaristi...”. Eccoli. Mi è venuto in mente il giorno della nostra ordinazione o consacrazione quando, dopo la presentazione, abbiamo detto: «Eccomi, Signore, per fare la tua volontà». In questo incontro desideriamo dire al Signore: «Eccoci», per rinnovare il nostro “sì”. Vogliamo rinnovare insieme la risposta alla chiamata che un giorno scosse il nostro cuore.

E per fare questo, credo che ci possa aiutare partire dal brano del Vangelo che abbiamo ascoltato e condividere tre momenti di Pietro e della prima comunità: Pietro e la comunità abbattuta, Pietro e la comunità perdonata e Pietro e la comunità trasfigurata. Gioco con questo binomio Pietro-comunità poiché l’esperienza degli apostoli ha sempre questo duplice aspetto, quello personale e quello comunitario. Vanno insieme e non li possiamo separare. Siamo, sì, chiamati individualmente, ma sempre ad esser parte di un gruppo più grande. Non esiste il “selfie vocazionale”, non esiste. La vocazione esige che la foto te la scatti un altro: che possiamo farci? Le cose stanno così.

Pietro abbattuto e la comunità abbattuta

Mi è sempre piaciuto lo stile dei Vangeli di non decorare né addolcire gli avvenimenti, e nemmeno di dipingerli belli. Ci presentano la vita com’è e non come dovrebbe essere. Il Vangelo non ha paura di mostrarci i momenti difficili, e perfino conflittuali, che i discepoli hanno attraversato.

Ricomponiamo la scena. Avevano ucciso Gesù; alcune donne dicevano che era vivo (cfr Lc 24,22-24). Anche se avevano visto Gesù risorto, l’evento era talmente forte che i discepoli avevano bisogno di tempo per comprendere l’accaduto. Luca dice: “Era così grande la gioia che non potevano crederci”. Avevano bisogno di tempo per comprendere quello che era successo. Comprensione che arriverà a Pentecoste, con l’invio dello Spirito Santo. L’irruzione del Risorto prenderà tempo per calare nel cuore dei suoi.

I discepoli ritornano alla loro terra. Vanno a fare quello che sapevano fare: pescare. Non c’erano tutti, solo alcuni. Divisi? Frammentati? Non lo sappiamo. Quello che ci dice la Scrittura è che quelli che c’erano non hanno pescato niente. Hanno le reti vuote.

Ma c’era un altro vuoto che pesava inconsciamente su di loro: lo smarrimento e il turbamento per la morte del loro Maestro. Non c’è più, è stato crocifisso. Non solo Lui era stato crocifisso, ma anche loro, perché la morte di Gesù aveva messo in evidenza un vortice di conflitti nel cuore dei suoi amici. Pietro lo aveva rinnegato, Giuda lo aveva tradito, gli altri erano fuggiti o si erano nascosti. Solo un pugno di donne e il discepolo amato erano rimasti. Il resto, se n’era andato. Questione di giorni, e tutto era crollato. Sono le ore dello smarrimento e del turbamento nella vita del discepolo. Nei momenti «in cui il polverone delle persecuzioni, delle tribolazioni, dei dubbi e così via, si alza per avvenimenti culturali e storici, non è facile trovare la strada da seguire. Esistono varie tentazioni che caratterizzano questo momento: discutere di idee, non dare la dovuta attenzione al fatto, fissarsi troppo sui persecutori… e credo che la peggiore di tutte le tentazioni è fermarsi a ruminare la desolazione».

Sì, stare a ruminare la desolazione. Questo è quello che è successo ai discepoli.

Come ci diceva il Card. Ezzati: «La vita presbiterale e consacrata in Cile ha attraversato e attraversa ore difficili di turbolenza e sfide non indifferenti. Insieme alla fedeltà della stragrande maggioranza, è cresciuta anche la zizzania del male col suo seguito di scandalo e diserzione».

Momento di turbolenza. Conosco il dolore che hanno significato i casi di abusi contro minori e seguo con attenzione quanto fate per superare questo grave e doloroso male. Dolore per il danno e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie, che hanno visto tradita la fiducia che avevano posto nei ministri della Chiesa. Dolore per la sofferenza delle comunità ecclesiali; e dolore anche per voi, fratelli, che oltre alla fatica della dedizione avete vissuto il danno provocato dal sospetto e dalla messa in discussione, che in alcuni o in molti può aver insinuato il dubbio, la paura e la sfiducia. So che a volte avete subito insulti sulla metropolitana o camminando per la strada; che andare “vestiti da prete” in molte zone si sta “pagando caro”. Per questo vi invito a chiedere a Dio che ci dia la lucidità di chiamare la realtà col suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare quello che Lui ci sta dicendo, e non ruminare la desolazione.

Mi piacerebbe poi aggiungere un altro aspetto importante. Le nostre società stanno cambiando. Il Cile di oggi è molto diverso da quello che conobbi al tempo della mia giovinezza, quando mi formavo. Stanno nascendo nuove e varie forme culturali che non si adattano ai contorni conosciuti. E dobbiamo riconoscere che, tante volte, non sappiamo come inserirci in queste nuove situazioni. Spesso sogniamo le “cipolle d’Egitto” e ci dimentichiamo che la terra promessa sta davanti, e non dietro. Che la promessa è di ieri, ma per domani. E allora possiamo cadere nella tentazione di chiuderci e isolarci per difendere le nostre posizioni che finiscono per essere nient’altro che bei monologhi. Possiamo essere tentati di pensare che tutto va male, e invece di professare una “buona novella”, ciò che professiamo è solo apatia e disillusione. Così chiudiamo gli occhi davanti alle sfide pastorali credendo che lo Spirito non abbia nulla da dire. Così ci dimentichiamo che il Vangelo è un cammino di conversione, ma non solo “degli altri”, ma anche nostra.

Ci piaccia o no, siamo invitati ad affrontare la realtà così come ci si presenta. La realtà personale, comunitaria e sociale. Le reti – dicono i discepoli – sono vuote, e possiamo comprendere i sentimenti che questo genera. Tornano a casa senza grandi avventure da raccontare; tornano a casa a mani vuote; tornano a casa abbattuti.

Cosa è rimasto di quei discepoli forti, coraggiosi, vivaci, che si sentivano scelti e avevano lasciato tutto per seguire Gesù (cfr Mc1,16-20)? Cosa è rimasto di quei discepoli sicuri di sé, che sarebbero andati in prigione e avrebbero dato persino la vita per il loro Maestro (cfr Lc 22,33), che per difenderlo volevano scagliare il fuoco sulla terra (cfr Lc 9,54); che per Lui avrebbero sguainato la spada e dato battaglia (cfr Lc 22,49-51)? Cosa è rimasto del Pietro che rimproverava il suo Maestro su come avrebbe dovuto condurre la propria vita (cfr Mc 8,31-33), il suo programma di redenzione? La desolazione.

Pietro perdonato – la comunità perdonata

  

È l’ora della verità nella vita della prima comunità. È l’ora in cui Pietro si confrontò con parte di sé stesso. Con la parte della sua verità che molte volte non voleva vedere. Fece l’esperienza del suo limite, della sua fragilità, del suo essere peccatore. Pietro l’istintivo, l’impulsivo capo e salvatore, con una buona dose di autosufficienza e un eccesso di fiducia in sé stesso e nelle sue possibilità, dovette sottomettersi alla propria debolezza e al proprio peccato. Lui era tanto peccatore quanto gli altri, era tanto bisognoso quanto gli altri, era tanto fragile quanto gli altri. Pietro deluse Colui al quale aveva giurato protezione. Un’ora cruciale nella vita di Pietro.

Come discepoli, come Chiesa, ci può accadere lo stesso: ci sono momenti in cui ci confrontiamo non con le nostre glorie, ma con la nostra debolezza. Ore cruciali nella vita dei discepoli, ma quella è anche l’ora in cui nasce l’apostolo. Lasciamoci guidare dal testo.

«Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”» (Gv 21,15).

Dopo mangiato, Gesù invita Pietro a fare due passi e l’unica parola è una domanda, una domanda di amore: Mi ami? Gesù non usa né il rimprovero né la condanna. L’unica cosa che vuole fare è salvare Pietro. Lo vuole salvare dal pericolo di restare rinchiuso nel suo peccato, di restare a “masticare” la desolazione frutto del suo limite; salvarlo dal pericolo di venir meno, a causa dei suoi limiti, a tutto il bene che aveva vissuto con Gesù. Gesù lo vuole salvare dalla chiusura e dall’isolamento. Lo vuole salvare da quell’atteggiamento distruttivo che è il vittimismo o, al contrario, dal cadere in un “tanto è tutto uguale” che finisce per annacquare qualsiasi impegno nel relativismo più dannoso. Vuole liberarlo dal considerare chiunque gli si oppone come se fosse un nemico, o dal non accettare con serenità le contraddizioni o le critiche. Vuole liberarlo dalla tristezza e specialmente dal malumore. Con quella domanda, Gesù invita Pietro ad ascoltare il proprio cuore e imparare a discernere. Perché «non era di Dio difendere la verità a costo della carità, né la carità a costo della verità, né l’equilibrio a costo di entrambe. Occorre discernere. Gesù vuole evitare che Pietro diventi un verace distruttore o un caritatevole menzognero o un perplesso paralizzato», come può capitarci in queste situazioni.

Gesù interrogò Pietro sull’amore e insistette con lui finché lui poté dargli una risposta realistica: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17). Così Gesù lo conferma nella missione. Così lo fa diventare definitivamente suo apostolo.

Che cosa fortifica Pietro come apostolo? Che cosa mantiene noi come apostoli? Una cosa sola: ci è stata usata misericordia (cfr 1 Tm1,12-16). Siamo stati trattati con misericordia. «In mezzo ai nostri peccati, limiti, miserie; in mezzo alle nostre molteplici cadute, Gesù ci ha visto, si è avvicinato, ci ha dato la mano e ci ha usato misericordia. Ognuno di noi potrebbe fare memoria, ricordando tutte le volte in cui il Signore lo ha visto, lo ha guardato, si è avvicinato e gli ha usato misericordia». E vi invito a fare questo. Non siamo qui perché siamo migliori degli altri. Non siamo supereroi che, dall’alto, scendono a incontrarsi con i “mortali”. Piuttosto siamo inviati con la consapevolezza di essere uomini e donne perdonati. E questa è la fonte della nostra gioia. Siamo consacrati, pastori nello stile di Gesù ferito, morto e risorto. Il consacrato – e quando dico “consacrati”, dico tutti quelli che sono qui – è colui e colei che incontra nelle proprie ferite i segni della Risurrezione; che riesce a vedere nelle ferite del mondo la forza della Risurrezione; che, come Gesù, non va incontro ai fratelli con il rimprovero e la condanna.

Gesù Cristo non si presenta ai suoi senza piaghe; proprio partendo dalle sue piaghe Tommaso può confessare la fede. Siamo invitati a non dissimulare o nascondere le nostre piaghe. Una Chiesa con le piaghe è capace di comprendere le piaghe del mondo di oggi e di farle sue, patirle, accompagnarle e cercare di sanarle. Una Chiesa con le piaghe non si pone al centro, non si crede perfetta, ma pone al centro l’unico che può sanare le ferite e che ha un nome: Gesù Cristo.

La consapevolezza di avere delle piaghe ci libera; sì, ci libera dal diventare autoreferenziali, di crederci superiori. Ci libera da quella tendenza «prometeica di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato».

In Gesù, le nostre piaghe sono risorte. Ci rendono solidali; ci aiutano a distruggere i muri che ci imprigionano in un atteggiamento elitario per stimolarci a gettare ponti e andare incontro a tanti assetati del medesimo amore misericordioso che solo Cristo ci può offrire. «Quante volte sogniamo piani apostolici espansionistici, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”». Vedo con una certa preoccupazione che ci sono comunità che vivono prese dall’ansia più di figurare sul cartellone, di occupare spazi, di apparire e mostrarsi, che non di rimboccarsi le maniche e andare a toccare la realtà sofferta del nostro popolo fedele.

Come ci mette in discussione la riflessione di quel santo cileno che avvertiva: «Saranno, dunque, metodi falsi tutti quelli che vengono imposti per uniformità; tutti quelli che pretendono di orientarci a Dio facendoci dimenticare i nostri fratelli; tutti quelli che ci fanno chiudere gli occhi sull’universo, invece di insegnarci ad aprirli per elevare tutto al Creatore di ogni cosa; tutti quelli che ci rendono egoisti e ci fanno ripiegare su noi stessi».

Il Popolo di Dio non aspetta né ha bisogno di noi come supereroi, aspetta pastori, uomini e donne consacrati, che conoscano la compassione, che sappiano tendere una mano, che sappiano fermarsi davanti a chi è caduto e, come Gesù, aiutino ad uscire da quel giro vizioso di “masticare” la desolazione che avvelena l’anima.

Pietro trasfigurato – la comunità trasfigurata

Gesù invita Pietro a discernere e così iniziano a prendere forza molti avvenimenti della vita di Pietro, come il gesto profetico della lavanda dei piedi. Pietro, quello che aveva opposto resistenza a lasciarsi lavare i piedi, incominciava a capire che la vera grandezza passa per il farsi piccoli e servitori.

Che pedagogia quella di nostro Signore! Dal gesto profetico di Gesù alla Chiesa profetica che, lavata dal proprio peccato, non ha paura di andare a servire un’umanità ferita.

Pietro ha sperimentato nella propria carne la ferita non solo del peccato, ma anche dei propri limiti e debolezze. Ma ha scoperto in Gesù che le sue ferite possono essere via di Risurrezione. Conoscere Pietro abbattuto per conoscere Pietro trasfigurato è l’invito a passare dall’essere una Chiesa di abbattuti desolati a una Chiesa servitrice di tanti abbattuti che vivono accanto a noi. Una Chiesa capace di porsi al servizio del suo Signore nell’affamato, nel carcerato, nell’assetato, nel senzatetto, nel denudato, nel malato… (cfr Mt 25,35). Un servizio che non si identifica con l’assistenzialismo o il paternalismo, ma con la conversione del cuore. Il problema non sta nel dar da mangiare al povero, vestire il denudato, assistere l’infermo, ma nel considerare che il povero, il denudato, il malato, il carcerato, il senzatetto hanno la dignità di sedersi alle nostre tavole, di sentirsi “a casa” tra noi, di sentirsi in famiglia. Quello è il segno che il Regno di Dio è in mezzo a noi. È il segno di una Chiesa che è stata ferita a causa del proprio peccato, colmata di misericordia dal suo Signore, e convertita in profetica per vocazione.

Rinnovare la profezia è rinnovare il nostro impegno di non aspettare un mondo ideale, una comunità ideale, un discepolo ideale per vivere o per evangelizzare, ma di creare le condizioni perché ogni persona abbattuta possa incontrarsi con Gesù. Non si amano le situazioni, né le comunità ideali, si amano le persone.

Il riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti, lungi dal separarci dal nostro Signore, ci permette di ritornare a Gesù sapendo che «Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. […] Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale». Come fa bene a tutti noi lasciare che Gesù ci rinnovi il cuore!

All’inizio di questo incontro vi dicevo che venivamo a rinnovare il nostro “sì”, con slancio, con passione. Vogliamo rinnovare il nostro “sì”, ma realistico, perché basato sullo sguardo di Gesù. Vi invito quando tornate a casa a preparare nel vostro cuore una specie di testamento spirituale, sul modello del Cardinal Raúl Silva Henríquez. Quella bella preghiera che inizia dicendo:

«La Chiesa che io amo è la Santa Chiesa di tutti i giorni… la tua, la mia, la Santa Chiesa di tutti i giorni…

…Gesù, il Vangelo, il pane, l’Eucaristia, il Corpo di Cristo umile ogni giorno. Con i volti dei poveri e i volti di uomini e donne che cantavano, che lottavano, che soffrivano. La Santa Chiesa di tutti i giorni».

Ti chiedo: Com’è la Chiesa che tu ami? Ami questa Chiesa ferita che trova vita nelle piaghe di Gesù?

Grazie per questo incontro. Grazie per l’opportunità di rinnovare il “sì” con voi. La Vergine del Carmelo vi copra col suo manto.

E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

(foto nell'articolo: Reuters)

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