Budapest
Dalla nostra inviata
Nella concattedrale di Santo Stefano, dove è conservata una reliquia del primo re ungherese che consacrò la nazione a Maria, papa Francesco incontra i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, i seminaristi e gli operatori pastorali.
Un lungo discorso in cui, dopo aver ascoltato le testimonianze di un sacerdote il cui fratello è stato ucciso dal regime ateo, di un prete greco cattolico, di una suora e di una catechista, pone le sfide pastorali che la Chiesa di questo Paese deve affrontare. Mette in guardia soprattutto dalla mondanità e dalla divisione. E chiede di guardare a Cristo che è il futuro. «Tornare a Cristo come futuro per non cadere nei venti cambianti della mondanità. È il peggio che può accadere alla Chiesa: una Chiesa mondana», dice Francesco. CI sono due tentazioni: «Una lettura catastrofista della storia presente, che si nutre del disfattismo di chi ripete che tutto è perduto, che non ci sono più i valori di una volta, che non si sa dove andremo a finire» e un’altra «della lettura ingenua del proprio tempo, che invece si fonda sulla comodità del conformismo e ci fa credere che in fondo vada tutto bene, che il mondo ormai è cambiato e bisogna adeguarsi, senza discernimento. È brutto quello. Ecco, contro il disfattismo catastrofico e il conformismo mondano il Vangelo ci dona occhi nuovi, ci dona la grazia del discernimento per entrare nel nostro tempo con un atteggiamento accogliente, ma anche con uno spirito di profezia. Quindi, con accoglienza aperta alla profezia. Non mi piace usare l’aggettivo profetico, si usa troppo, no, sostantivo», spiega il Pontefice.
Il tempo presente, così come per il fico della parabola, va accolto come una pianta feconda. «Siamo chiamati a coltivare questa nostra stagione, a leggerla, a seminarvi il Vangelo, a potare i rami secchi del male a portare frutto. Siamo chiamati a un’accoglienza con profezia. Accoglienza con profezia: si tratta di imparare a riconoscere i segni della presenza di Dio nella realtà, anche laddove essa non appare esplicitamente segnata dallo spirito cristiano e ci viene incontro con il suo carattere di sfida o di interrogativo». Senza farsi mondanizzare bisogna interpretare tutto alla luce del Vangelo. Lo ripete più volte: «Cadere nella mondanizzazione è il peggio che può accadere a una comunità cristiana. Vediamo che anche in questo Paese, dove la tradizione di fede rimane ben radicata, si assiste alla diffusione del secolarismo e a quanto lo accompagna, il che spesso rischia di minacciare l’integrità e la bellezza della famiglia, di esporre i giovani a modelli di vita improntati al materialismo e all’edonismo, di polarizzare il dibattito su tematiche e sfide nuove. E allora la tentazione può essere quella di irrigidirsi, di chiudersi e assumere un atteggiamento da “combattenti”. Ma tali realtà possono rappresentare delle opportunità per noi cristiani, perché stimolano la fede e l’approfondimento di alcuni temi, invitano a chiederci in che modo queste sfide possano entrare in dialogo con il Vangelo, a cercare vie, strumenti e linguaggi nuovi».
Occorre però «purificare la Chiesa da ogni sorta di mondanità, dal paganesimo soft, un paganesimo che non ti toglie la pace. Perché è buono? No, perché sei anestetizzato». E invece bisogna entrare in dialogo con il mondo, ascoltarne le domande «senza paura o rigidità. Questo non è facile nella situazione attuale, perché non mancano anche all’interno delle fatiche». Il Papa pensa alle fatiche dei sacerdoti, sovraccaricati di impegni e con le vocazioni che calano. «Questa è una condizione comune a molte realtà europee, rispetto alla quale è importante che tutti – pastori e laici – si sentano corresponsabili: anzitutto nella preghiera, perché le risposte vengono dal Signore e non dal mondo, dal tabernacolo e non dal computer». Ancora il Papa mette in guardia contro la rigidità ricordando che lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. «Permettetemi poi di dirvi che una buona pastorale è possibile se siamo capaci di vivere quell’amore che il Signore ci ha comandato e che è dono del suo Spirito. Se siamo distanti o divisi, se ci irrigidiamo nelle posizioni e nei gruppi, non portiamo frutto», dice, perché «pensiamo a noi stessi, alle nostre idee, alle nostre teologie. È triste quando ci si divide perché, anziché fare gioco di squadra, si fa il gioco del nemico, il diavolo è quello che divide, è un artista: i Vescovi scollegati tra loro, i preti in tensione col Vescovo, quelli anziani in conflitto con i più giovani, i diocesani con i religiosi, i presbiteri con i laici, i latini con i greci; ci si polarizza su questioni che riguardano la vita della Chiesa, ma pure su aspetti politici e sociali, arroccandosi su posizioni ideologiche. Ma non lasciate entrare le ideologie, la fede non può essere ridotta a ideologia, questo è del diavolo, per favore non fatelo. No, per favore». Anzi, il «primo lavoro pastorale è la testimonianza della comunione, perché Dio è comunione ed è presente dove c’è carità fraterna».
Qui, insiste, «mi permetto di dirvi state attenti al chiacchiericcio tra i vescovi, tra i preti, tra le suore, tra i laici. Il chiacchiericcio distrugge, sembra tanto bello chiacchierare degli altri, è come una caramella di zucchero, ma state attenti perché è la strada della distruzione. Se un consacrato riuscisse a non parlare degli altri sarebbe un santo. C’è un rimedio contro il chiacchiericcio, la preghiera e mordersi la lingua. Mordetevi la lingua e niente chiacchiericcio. D’accordo? Niente chiacchiericcio».
Il Papa sprona anche all’accoglienza «che è profezia», cioè capacità di «trasmettere la consolazione del Signore nelle situazioni di dolore e di povertà del mondo,
stando vicini ai cristiani perseguitati, ai migranti che cercano ospitalità, alle persone di altre etnie, a chiunque si trovi nel bisogno. Avete in tal senso grandi esempi di santità, come
San Martino. Il suo gesto di dividere il mantello con il povero è molto più che un’opera di carità: è l’immagine di Chiesa verso cui tendere, è ciò che la Chiesa di Ungheria può portare come profezia nel cuore dell’Europa: misericordia e prossimità». E infine ricorda «
Santo Stefano, la cui reliquia è qui accanto a me: egli, che per primo affidò la nazione alla Madre di Dio, che fu intrepido evangelizzatore e fondatore di monasteri e abbazie, sapeva anche ascoltare e dialogare con tutti e occuparsi dei poveri: abbassò per loro le tasse e andava a fare l’elemosina travestendosi per non essere riconosciuto. Questa è
la Chiesa che dobbiamo sognare: una Chiesa capace di ascolto vicendevole, di dialogo, di attenzione ai più deboli; una Chiesa accogliente verso tutti e coraggiosa nel portare a ciascuno la profezia del Vangelo».