Pubblichiamo il testo integrale del discorso che papa Francesco ha rivolto ai sacerdoti, i consacrati e i seminaristi lituani nella cattedrale di Kaunas.
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!
Prima di tutto, vorrei dire un sentimento che provo. Guardando voi, vedo dietro di voi tanti martiri. Martiri anonimi, nel senso che neppure sappiamo dove sono stati sepolti. Anche qualcuno di voi: ho salutato uno che ha saputo che cos’era la prigione. Mi viene in mente una parola per incominciare: non dimenticatevi, abbiate memoria. Siete figli di martiri, questa è la vostra forza. E lo spirito del mondo non venga a dirvi qualche altra cosa diversa da quella che hanno vissuto i vostri antenati. Ricordate i vostri martiri e prendete esempio da loro: non avevano paura. Parlando con i Vescovi, i vostri Vescovi, oggi, dicevano: “Come si può fare per introdurre la causa di beatificazione per tanti dei quali non abbiamo documenti, ma sappiamo che sono martiri?”. È una consolazione, è bello sentire questo: la preoccupazione per coloro che ci hanno dato testimonianza. Sono dei santi.
Il Vescovo [Linas Vodopjanovas, O.F.M., incaricato per la vita consacrata] ha parlato senza sfumature – i francescani parlano così –: “Oggi spesso, in vari modi, viene messa alla prova la nostra fede”, ha detto. Lui non pensava alle persecuzioni dei dittatori, no. “Dopo aver risposto alla chiamata della vocazione spesso non proviamo più gioia né nella preghiera né nella vita comunitaria”. Lo spirito della secolarizzazione, della noia per tutto quello che tocca la comunità è la tentazione della seconda generazione. I nostri padri hanno lottato, hanno sofferto, sono stati carcerati e forse noi non abbiamo la forza di andare avanti.
Tenete conto di questo! La Lettera agli Ebrei fa un’esortazione: “Non dimenticatevi dei primi giorni. Non dimenticatevi dei vostri antenati” (cfr 10,32-39). Questa è l’esortazione che all’inizio rivolgo a voi. Tutta la visita al vostro Paese è stata incorniciata in questa espressione: “Cristo Gesù, nostra speranza”. Ormai quasi al termine di questo giorno, troviamo un testo dell’apostolo Paolo che ci invita a sperare con costanza. E questo invito lo fa dopo averci annunciato il sogno di Dio per ogni essere umano, di più, per tutto il creato: cioè che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28); «raddrizza» tutte le cose, sarebbe la traduzione letterale. Oggi vorrei condividere con voi alcuni tratti caratteristici di questa speranza; tratti che noi – sacerdoti, seminaristi, consacrati e consacrate – siamo chiamati a vivere. Anzitutto, prima di invitarci alla speranza, Paolo ha ripetuto tre volte la parola “gemere”: geme la creazione, gemono gli uomini, geme lo Spirito in noi (cfr Rm 8,22-23.26). Si geme per la schiavitù della corruzione, per l’anelito alla pienezza. E oggi ci farà bene domandarci se quel gemito è presente in noi, o se invece nulla più grida nella nostra carne, nulla anela al Dio vivente. Come diceva il vostro Vescovo: “Non proviamo più la gioia nella preghiera, nella vita comunitaria”. Il bramito della cerva assetata davanti alla carenza di acqua dovrebbe essere il nostro nella ricerca della profondità, della verità, della bellezza di Dio. Cari, noi non siamo “funzionari di Dio”! Forse la società del benessere ci ha resi troppo sazi, pieni di servizi e di beni, e ci ritroviamo appesantiti di tutto e pieni di nulla; forse ci ha resi storditi o dissipati, ma non pieni. Peggio ancora: a volte non sentiamo più la fame. Siamo noi, uomini e donne di speciale consacrazione, coloro che non possono mai permettersi di perdere quel gemito, quell’inquietudine del cuore che solo nel Signore trova riposo (cfr S. Agostino, Confessioni, I,1,1). L’inquietudine del cuore. Nessuna informazione immediata, nessuna comunicazione virtuale istantanea può privarci dei tempi concreti, prolungati, per conquistare – di questo si tratta, di uno sforzo costante – per conquistare un dialogo quotidiano con il Signore attraverso la preghiera e l’adorazione. Si tratta di coltivare il nostro desiderio di Dio, come scriveva san Giovanni della Croce. Diceva così: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore» (Consigli per raggiungere la perfezione, 9). Questo gemito deriva anche dalla contemplazione del mondo degli uomini, è un appello alla pienezza di fronte ai bisogni insoddisfatti dei nostri fratelli più poveri, davanti alla mancanza di senso della vita dei più giovani, alla solitudine degli anziani, ai soprusi contro l'ambiente. È un gemito che cerca di organizzarsi per incidere sugli eventi di una nazione, di una città; non come pressione o esercizio di potere, ma come servizio. Il grido del nostro popolo ci deve colpire, come Mosè, al quale Dio rivelò la sofferenza del suo popolo nell’incontro presso il roveto ardente (cfr Es 3,9). Ascoltare la voce di Dio nella preghiera ci fa vedere, ci fa udire, conoscere il dolore degli altri per poterli liberare. Ma altrettanto dobbiamo essere colpiti quando il nostro popolo ha smesso di gemere, ha smesso di cercare l'acqua che estingue la sete. È un momento anche per discernere che cosa stia anestetizzando la voce della nostra gente. Il grido che ci fa cercare Dio nella preghiera e nell’adorazione è lo stesso che ci fa ascoltare il lamento dei nostri fratelli. Loro “sperano” in noi e abbiamo bisogno, a partire da un attento discernimento, di organizzarci, programmare ed essere audaci e creativi nel nostro apostolato. Che la nostra presenza non sia lasciata all’improvvisazione, ma risponda ai bisogni del popolo di Dio e sia quindi fermento nella massa (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 33). Ma l’Apostolo parla anche di costanza, costanza nella sofferenza, costanza nel perseverare nel bene. Questo significa essere centrati in Dio, rimanere fermamente radicati in Lui, essere fedeli al suo amore. Voi, i più anziani di età – come non menzionare Mons. Sigitas Tamkevicius? – sapete testimoniare questa costanza nel patire, questo “sperare contro ogni speranza” (cfr Rm 4,18). La violenza usata su di voi per aver difeso la libertà civile e religiosa, la violenza della diffamazione, il carcere e la deportazione non hanno potuto vincere la vostra fede in Gesù Cristo, Signore della storia. Per questo, avete molto da dirci e insegnarci, e anche molto da proporre, senza dover giudicare l’apparente debolezza dei più giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani.
Vedo che ci sono giovani qui. Ripeto, perché ci sono dei giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani. È meglio che prendiate un’altra strada piuttosto che vivere nella mediocrità. Questo per i giovani. Siete ancora in tempo, e la porta è aperta. Sono proprio le tribolazioni a delineare i tratti distintivi della speranza cristiana, perché quando è solo una speranza umana possiamo frustrarci e schiacciarci nel fallimento; ma non accade lo stesso con la speranza cristiana: essa esce più limpida, più provata dal crogiolo delle tribolazioni.
No ai preti funzionari che non si avvicinano alla gente
È vero che questi sono altri tempi e viviamo in altre strutture, ma è anche vero che questi consigli vengono meglio assimilati quando coloro che hanno vissuto quelle dure esperienze non si chiudono, ma le condividono approfittando dei momenti comuni. Le loro storie non sono piene di nostalgie di tempi passati presentati come migliori, né di accuse dissimulate verso quanti hanno strutture affettive più fragili. La provvista di costanza di una comunità di discepoli è efficace quando sa integrare – come quello scriba del Vangelo – il nuovo e il vecchio (cfr Mt 13,52), quando è consapevole che la storia vissuta è radice affinché l’albero possa fiorire. Infine, guardare a Cristo Gesù come nostra speranza significa identificarci con Lui, partecipare comunitariamente al suo destino. Per l’apostolo Paolo, la salvezza sperata non si limita a un aspetto negativo – liberazione da una tribolazione interna o esterna, temporale o escatologica – ma l’accento è posto su qualcosa di altamente positivo: la partecipazione alla vita gloriosa di Cristo (cfr 1 Ts 5,9-10), la partecipazione al suo Regno glorioso (cfr 2 Tm 4,18), la redenzione del corpo (cfr Rm 8,23-24). Dunque, si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ognuno, per ognuno di noi. Perché non c’è nessuno che ci conosca e ci abbia conosciuto tanto profondamente come Dio, perciò Egli ci ha destinati a qualcosa che sembra impossibile: scommette senza possibilità di errore che noi riproduciamo l’immagine di suo Figlio. Egli ha riposto le sue aspettative in noi, e noi speriamo in Lui. Noi: un “noi” che integra, ma anche supera ed eccede l’“io”; il Signore ci chiama, ci giustifica e ci glorifica insieme, così insieme da includere tutta la creazione. Molte volte abbiamo posto così tanto l’accento sulla responsabilità personale che la dimensione comunitaria è diventata uno sfondo, solo un ornamento. Ma lo Spirito Santo ci riunisce, riconcilia le nostre differenze e genera nuovi dinamismi per dare impulso alla missione della Chiesa (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 131; 235).
Questo tempio in cui ci siamo radunati, è intitolato ai Santi Pietro e Paolo. Entrambi gli Apostoli furono consapevoli del tesoro che era stato loro dato, entrambi, in momenti e modi diversi, furono invitati a “prendere il largo” (cfr Lc 5,4). Sulla barca della Chiesa ci siamo tutti, cercando sempre di gridare a Dio, di essere costanti in mezzo alle tribolazioni e di avere Cristo Gesù come oggetto della nostra speranza. E questa barca, riconosce al centro della propria missione l’annuncio di quella gloria sperata, che è la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, in Cristo Risorto, e che un giorno, atteso con ansia da tutta la creazione, si manifesterà nei figli di Dio. Questa è la sfida che ci spinge: il mandato di evangelizzare. È la ragione della nostra speranza e della nostra gioia. Quante volte troviamo sacerdoti, consacrati e consacrate, tristi. La tristezza spirituale è una malattia. Tristi perché non sanno… Tristi perché non trovano l’amore, perché non sono innamorati: innamorati del Signore. Hanno lasciato da parte una vita di matrimonio, di famiglia, e hanno voluto seguire il Signore. Ma adesso sembra che si siano stancati... E scende la tristezza. Per favore, quando voi vi troverete tristi, fermatevi. E cercate un prete saggio, una suora saggia. Non saggi perché siano laureati all’università, no, non per quello. Saggio o saggia perché è stato capace o è stata capace di andare avanti nell’amore. Andate a chiedere consiglio. Quando incomincia quella tristezza, possiamo profetizzare che se non è guarita in tempo farà di voi “zitelloni” e “zitellone”, uomini e donne che non sono fecondi. E di questa tristezza abbiate paura! La semina il diavolo. E oggi quel mare in cui “prendere il largo” saranno gli scenari e le sfide sempre nuove di questa Chiesa in uscita.
Dobbiamo domandarci nuovamente: che cosa ci chiede il Signore? Quali sono le periferie che più hanno bisogno della nostra presenza per portare ad esse la luce del Vangelo? (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 20). Altrimenti, se voi non avete la gioia della vocazione, chi potrà credere che Gesù Cristo è la nostra speranza? Solo il nostro esempio di vita darà ragione della nostra speranza in Lui. C’è un’altra cosa che si collega con la tristezza: confondere la vocazione con un’impresa, con una ditta di lavoro. “Io mi impiego in questo, lavoro in questo, mi entusiasmo con questo…, e sono felice perché ho questo”. Ma domani, viene un vescovo, un altro o lo stesso, o viene un altro superiore, superiora, e ti dice: “No, taglia questo e va da quella parte”. È il momento della sconfitta. Perché? Perché, in quel momento, ti accorgerai di essere andato per una strada equivoca. Ti accorgerai che il Signore, che ti ha chiamato per amare, è deluso da te, perché tu hai preferito fare l’affarista. All’inizio vi ho detto che la vita di chi segue Gesù non è la vita di funzionario o funzionaria: è la vita dell’amore del Signore e dello zelo apostolico per la gente.
Farò una caricatura: cosa fa un prete funzionario? Ha il suo orario, il suo ufficio, apre l’ufficio a quell’ora, fa il suo lavoro, chiude l’ufficio… E la gente è fuori. Non si avvicina alla gente. Cari fratelli e sorelle, se voi non volete essere dei funzionari, vi dirò una parola: vicinanza! Vicinanza, prossimità. Vicinanza al Tabernacolo, a tu per tu con il Signore. E vicinanza alla gente. “Ma, padre, la gente non viene…”. Vai a trovarla! “Ma, i ragazzi oggi non vengono…”. Inventa qualcosa: l’oratorio, per seguirli, per aiutarli. Vicinanza con la gente. E vicinanza con il Signore nel Tabernacolo. Il Signore vi vuole pastori di popolo, e non chierici di Stato! Dopo dirò qualcosa alle suore, ma dopo…
Vicinanza vuol dire misericordia, siate misericordiosi nel confessionale
Vicinanza vuol dire misericordia. In questa terra dove Gesù si è rivelato come Gesù misericordioso, un sacerdote non può non essere misericordioso. Soprattutto nel confessionale. Pensate a come Gesù accoglierebbe questa persona [che viene a confessarsi]. Già abbastanza lo ha bastonato la vita, quel poveraccio! Fagli sentire l’abbraccio del Padre che perdona. Se non puoi dargli l’assoluzione, per esempio, dagli la consolazione del fratello, del padre. Incoraggialo ad andare avanti. Convincilo che Dio perdona tutto. Ma questo col calore di padre. Mai cacciare qualcuno dal confessionale! Mai cacciare via. “Guarda, tu non puoi… Adesso non posso, ma Dio ti ama, tu prega, ritorna e parleremo…”. Così. Vicinanza. Questo è essere padre. A te non importa di quel peccatore, che lo cacci via così? Non sto parlando di voi, perché non vi conosco. Parlo di altre realtà. E misericordia. Il confessionale non è lo studio di uno psichiatra. Il confessionale non è per scavare nel cuore della gente. E per questo, cari sacerdoti, vicinanza per voi significa anche avere viscere di misericordia. E le viscere di misericordia, sapete dove si prendono? Lì, al Tabernacolo. E voi, care suore… Tante volte si vedono suore che sono brave – tutte le suore sono brave –, ma che chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano… Domandate a quella che è al primo posto dall’altra parte – la penultima – se nel carcere aveva tempo di chiacchierare, mentre cuciva i guanti. Domandatele. Per favore, siate madri! Siate madri, perché voi siete icona della Chiesa e della Madonna. E ogni persona che vi vede, possa vedere la mamma Chiesa e la mamma Maria.
Non dimenticate questo. E la mamma Chiesa non è “zitellona”. La mamma Chiesa non chiacchiera: ama, serve, fa crescere. La vostra vicinanza è essere madre: icona della Chiesa e icona della Madonna. Vicinanza al Tabernacolo e alla preghiera. Quella sete dell’anima di cui ho parlato, e con gli altri. Servizio sacerdotale e vita consacrata non da funzionari, ma di padri e madri di misericordia. E se voi fate così, da vecchi avrete un sorriso bellissimo e degli occhi brillanti! Perché avrete l’anima piena di tenerezza, di mitezza, di misericordia, di amore, di paternità e maternità.
E pregate per questo povero vescovo. Grazie!