Garbato, ma inequivocabile l'invito a precedere risoluti è giunto alla fine di un discorso già di suo ricco di spunti. «Dopo cinque anni – ha detto papa Francesco integrando a braccio il testo scritto -, la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare». Poco prima era stato chiaro e inequivocable sul Vaticano II: «Il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa. Dobbiamo in questo punto essere esigenti, severi. Il Concilio non va negoziato… No, il Concilio è così. E questo problema che noi stiamo vivendo, della selettività rispetto al Concilio, si è ripetuto lungo la storia con altri Concili. A me fa pensare tanto un gruppo di vescovi che, dopo il Vaticano I, sono andati via, un gruppo di laici, dei gruppi, per continuare la “vera dottrina” che non era quella del Vaticano I: “Noi siamo i cattolici veri”. Oggi ordinano donne. L’atteggiamento più severo, per custodire la fede senza il magistero della Chiesa, ti porta alla rovina. Per favore, nessuna concessione a coloro che cercano di presentare una catechesi che non sia concorde al magistero della Chiesa».
No, non è stato un discorso freddo e formale quello che, sabato 30 gennaio, papa Francesco ha fatto intervenendo all’Incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale della Conferenza episcopale italia (Cei) nel sessantesimo anniversario della sua istituzione. «In questo anno contrassegnato dall’isolamento e dal senso di solitudine causati dalla pandemia», il virus, ha detto Jorge Mario Bergoglio, «ha scavato nel tessuto vivo dei nostri territori, soprattutto esistenziali, alimentando timori, sospetti, sfiducia e incertezza. Abbiamo capito, infatti, che non possiamo fare da soli e che l’unica via per uscire meglio dalle crisi è uscirne insieme, riabbracciando con più convinzione la comunità in cui viviamo». Secondo Francesco, la catechesi e l’annuncio «non possono che porre al centro questa dimensione comunitaria. Non è il momento per strategie elitarie. La grande comunità, ha quindi spiegato a braccio, è il santo popolo fedele di Dio. Non si può andare avanti fuori del santo popolo fedele di Dio, il quale – come dice il Concilio – è infallibile in credendo. Sempre con il santo popolo di Dio. Cercare appartenenze elitarie – il monito di Francesco – ti allontana dal popolo di Dio, forse con formule sofisticate, ma tu perdi quell’appartenenza alla Chiesa che è il santo popolo fedele di Dio».
Questo, ha quindi scandito il Pontefice, è «il tempo per essere artigiani di comunità aperte” e “missionarie”, di “comunità che guardino negli occhi i giovani delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati. È il tempo di comunità che, come il Buon Samaritano, sappiano farsi prossime a chi è ferito dalla vita, per fasciarne le piaghe con compassione”. “Non dimenticatevi questa parola: compassione”, ha aggiunto fuori testo richiamando tutte le volte in cui, secondo il Vangelo, Gesù “ebbe compassione”. Nel riprendere le proprie parole al Convegno ecclesiale di Firenze del 2015, il Papa ha ribadito: «Desidero una Chiesa ‘sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. […] Una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza»”