Nel 2014 aveva elencato le «malattie della Curia», nel 2015 aveva parlato delle virtù necessarie ai curiali per aiutare il Papa nel governo della Chiesa e realizzare le riforme, l’anno scorso aveva avvertito che la riforma della Curia «non è un lifting per togliere le rughe» perché «non sono le rughe che nella Chiesa si devono temere, ma le macchie!». Quest’anno, nel tradizionale discorso per gli auguri natalizi ai cardinali e ai collaboratori della Curia romana, papa Francesco cita l’arcivescovo belga monsignor De Mérode: «Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti» e avverte che «una Curia chiusa in sé stessa sarebbe condannata all’autodistruzione».
Il Pontefice chiede che si superino le logiche dei complotti e delle piccole cerchie autoreferenziali e, rivolgendosi ai cardinali e vescovi presenti nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, critica apertamente i “traditori di fiducia”: «Permettetemi qui», dice il Papa, «di spendere due parole su un altro pericolo, ossia quello dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma – non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità – si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si autodichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia”..., invece di recitare il “mea culpa”».
Inoltre, «accanto a queste persone ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene».
Francesco ricorda che chi lavora nella Curia deve essere come i sensi in un organismo che «aiutano a cogliere e colorati nel reale. Questo», sottolinea, «è molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano – nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni – un cancro che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano», fino a «perdere la gioia del Vangelo, la gioia di comunicare il Cristo e di essere in comunione con Lui».
Accanto alle critiche il Papa invita anche a non «dimenticare certamente la stragrande parte di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità». Negli auguri veri e propri il Papa ha auspicato «che questo Natale ci apra gli occhi per abbandonare il superfluo, il falso, il malizioso e il finto, e per vedere l'essenziale, il vero, il buono e l'autentico. Tanti auguri davvero!».
Poi si è soffermato sui rapporti della Curia con le Nazioni, con le Chiese particolari, con le Chiese Orientali, con il dialogo ecumenico, con l'ebraismo, con l'Islam e le altre religioni, cioè con il mondo esterno.
La diplomazia vaticana e i rapporti con le altre religioni
Sulla diplomazia della Chiesa ha ribadito che essa «è al servizio dell’umanità e dell’uomo, della mano tesa e della porta aperta, e si impegna nell’ascoltare, nel comprendere, nell’aiutare, nel sollevare e nell’intervenire prontamente e rispettosamente in qualsiasi situazione per avvicinare le distanze e per intessere la fiducia».
Il Papa si è soffermato anche sul rapporto tra la Chiesa e le altre religioni: «Il rapporto della Curia romana con le altre religioni si basa sull’insegnamento del Concilio Vaticano II e sulla necessità del dialogo, perché l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è l’inciviltà dello scontro», ripete Francesco. Il dialogo è costruito su tre orientamenti fondamentali, «il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni», spiega: «Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione».
Bergoglio ha concluso ricordando che «una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi; una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere; una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci; una fede che non ci anima è una fede che deve essere animata; una fede che non ci sconvolge è una fede che deve essere sconvolta».
Poi, al termine dell’udienza, ha offerto il suo dono di Natale ai cardinali e vescovi: «Vorrei», ha detto a braccio, «come dono del Natale, lasciare questa versione italiana dell'opera di padre Beato Maria Eugenio di Gesù Bambino (al secolo, Henri Grialou, ndr), “Voglio vedere Dio”: è un'opera di teologia spirituale, ci farà bene a tutti, forse non leggendola tutta ma cercando nell'indice la parte che più interessa o di cui si ha più bisogno. Spero che faccia bene a tutti noi».