Cracovia, Polonia
Dal nostro inviato
Fa
salire un gruppo di ragazzi sulla papa mobile appena arriva al
Campus Misericordia ascolta tre testimonianze tra cui quella di Rand
che viene da Aleppo. Le altre due sono di una giovane polacca
direttrice in una rivista di moda che ad un certo punto guarda la sua
vita e vede solo disastri, fa la lista dei suoi peccati, si confessa
e trova la fede, e di un giovane del Paraguay riuscito ad uscire dal
tunnel della droga con l’aiuto delle comunità “Casa della
speranza” del Brasile. Ora è direttore di una di esse.
Il Papa,
come aveva già fatto alla mattina nella Messa al santuario Giovanni
Paolo II, chiede di nuovo ai giovani di rischiare e di uscire. Ma
prima, colpito dalla testimonianza della giovane di Aleppo, ripete
che la “nostra riposta al mondo in guerra ha un nome e si chiama
fraternità” e che “nulla giustifica il sangue”. Alza la voce,
pensando ad Aleppo e alla Siria: “Basta città dimenticate”. Vede
che ha davanti nella spianata, “figli”, dice, “di nazioni che
forse stanno discutendo per vari conflitti o addirittura sono in
guerra” e altri che “sono in pace”. Sulla guerra in Siria dice
qualche cosa in più: “E’ il dolore e la sofferenza di tante
persone, di tanti giovani come Rand che ci chiede di pregare per il
suo amato Paese”. Sottolinea che “noi non vogliamo vincere l’odio
con più odio, vincere la violenza con più violenza, vincere il
terrore con più terrore”.
Chiede il silenzio per pregare un
momento, prendendosi per mano, per quelli che non si impegnano che
intendono la famiglia come un albergo, “mangiare e dormire” e
anche per quelli che credono che “i loro errori li abbiamo tagliati
fiori definitivamente”, la “paura di non avere altro
opportunità”. Perché “la paura” e la “paralisi”, che il
papa chiama “sua sorella gemella” ci fa perdere il gusto di
godere dell’incontro, dell’amicizia, il gusto di sognare insieme,
di camminare gli altri”. Insiste sull’impegno spiegando ai
giovani che non si è venuti al mondo “per vegetare”, per
“addormentarsi su un divani”, per “garantirsi ore tranquille”
con i “videogiochi”, per passate tempo “davanti allo schermo
del computer”. La “felicità del divano” è una “paralisi
silenziosa” che può “rovinare” e “imbambolare” e
“intontire”, anzi che “può rovinare di più la gioventù”.
La felicità non è nemmeno “consumare”, perché quando ci si
ferma su questa soglia si perde “la libertà”. Denuncia che “c’è
tanta gente che non vi vuole liberi e che non vi vuole bene”.
Bergoglio spiega che, oltre alla droga, “che fa male”, ci sono
altre droghe socialmente accettate che finiscono per renderci meno
liberi o comunque più schiavi”. Invece occorrono “giovani
svegli”, perché Dio vuole che si rischi, che si vada sempre
“oltre”, Gesù “non è il Signore del confort”. Chiede ai
giovani di “aprire nuovi orizzonti”, di “andare per le strade
seguendo la pazzia di Dio”, che si vede negli ammalati, nell’
“amico finito male”, nei “profughi” e di diventare “attori
politici, persone che pensano” e “animatori sociali”,
stimolando anche “un’economia più solidale”. Il nostro tempo,
aggiunge, ha bisogno di “giovani che camminano con gli scarponcini”
e accetta solo “giocatori titolari in campo”. Insomma “non c’è
posto per le riserve”: “Gesù ti proietta all’orizzonte, non in
un museo”. Alla fine li invita di nuovo a costruire ponti e spiega
che i giovani possono insegnare agli adulti come fare: “Che siate
voi i nostri accusatori se scegliamo la via dei muri e
dell’inimicizia”. Invita alla fine ancora a prendersi per mano:
“E’ il grande ponte fraterno e possano imparare a farlo i grandi
di questo mondo…ma non per la fotografia”.