È l’Europa al centro delle attenzioni del Papa nel suo viaggio tra Ungheria e Slovacchia. L’Europa chiamata alla sfida del post pandemia, alla costruzione di una società inclusiva che non lasci indietro nessuno, che cerchi l’unità preservando memorie, radici e differenze.
Che parli ai vescovi, alle comunità ebraiche, ai rom, alle altre Chiese cristiane, ai politici o alla gente comune la preoccupazione del Papa è che si sia immersi «nella vita reale della gente» per aiutarla a camminare insieme, a essere liberi, per quanto questo può essere faticoso, a non ripetere gli errori del passato. In una terra segnata dal martirio, dalla persecuzione, dagli orrori della seconda guerra mondiale con lo sterminio di oltre 100 mila ebrei slovacchi, il Papa dice forte che «il nome di Dio è stato disonorato». Ricorda, parlando nella piazza Rybné namestie, dove sorgeva la sinagoga demolita per cancellare ogni traccia della comunità ebraica, che «la blasfemia peggiore» che si può arrecare al nome di Dio «è quello di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri».
«Qui», dice Francesco, «davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da questo affronto tragico e inenarrabile, ci vergogniamo ad ammetterlo: quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: “Dio è con noi”; ma erano loro a non essere con Dio».
Anche oggi «non mancano idoli vani e falsi che disonorano il nome dell’Altissimo», sottolinea il Papa ricordando il dovere della memoria perché l’odio non si ripeta. E gli idoli «sono quelli del potere e del denaro che prevalgono sulla dignità dell’uomo, dell’indifferenza che gira lo sguardo dall’altra parte, delle manipolazioni che strumentalizzano la religione, facendone questione di supremazia oppure riducendola all’irrilevanza. E ancora, sono la dimenticanza del passato, l’ignoranza che giustifica tutto, la rabbia e l’odio. Siamo uniti – lo ribadisco – nel condannare ogni violenza, ogni forma di antisemitismo, e nell’impegnarci perché non venga profanata l’immagine di Dio nella creatura umana».
Ma, mentre si fa memoria di quanto è accaduto occorre anche essere aperti al futuro. Come questa piazza che «è anche un luogo dove brilla la luce della speranza. Qui ogni anno», dice il Pontefice agli ebrei, «venite ad accendere la prima luce sul candelabro della Chanukia. Così, nell’oscurità, appare il messaggio che non sono la distruzione e la morte ad avere l’ultima parola, ma il rinnovamento e la vita. E se la sinagoga in questo sito è stata demolita, la comunità è ancora presente. È viva e aperta al dialogo. Qui le nostre storie si incontrano di nuovo. Qui insieme affermiamo davanti a Dio la volontà di proseguire nel cammino di avvicinamento e di amicizia».
All’intero popolo slovacco aveva parlato anche di perdono e di misericordia. «So che voi avete un proverbio: “A chi ti tira un sasso, tu dona un pane”. Questo ci ispira a spezzare il circolo vizioso e distruttivo della violenza, porgendo l’altra guancia a chi ci percuote, per vincere il male con il bene», aveva detto al mattino nel suo discorso pronunciato in cattedrale. Un forte applauso era scattato dai vescovi, dalle suore, dai preti, dai religiosi quando Francesco aveva parlato del cardinale Korec. «Era un Cardinale gesuita, perseguitato dal regime, imprigionato, costretto a lavorare duramente finché si ammalò. Quando venne a Roma per il Giubileo del 2000, andò nelle catacombe e accese un lumino per i suoi persecutori, invocando per loro misericordia», è la sottolineatura del Papa. Che alla Chiesa di Slovacchia lascia tre parole: libertà, creatività, dialogo. Senza essere «Chiesa fortezza, che guarda il mondo con distanza e sufficienza», ma «lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo».
Perché il mondo, e l’Europa, hanno bisogno di libertà. «Senza libertà», dice il Papa, «non c’è vera umanità, perché l’essere umano è stato creato libero e per essere libero. I periodi drammatici della storia del vostro Paese sono un grande insegnamento: quando la libertà è stata ferita, violata e uccisa, l’umanità è stata degradata e si sono abbattute le tempeste della violenza, della coercizione e della privazione dei diritti». Ma la libertà non è conquistata una volta per sempre. C’è sempre la tentazione, nei momenti di difficoltà, di rimpiangere la schiavitù, come fece anche il popolo ebraico nel deserto, per tornare nella schiavitù dove «almeno avevamo un po’ di cipolle da mangiare…”. Una grande tentazione: meglio un po’ di cipolle che la fatica e il rischio della libertà». C’è sempre la tentazione di voler controllare le cose, ma la libertà è un rischio da correre. «Lo dico soprattutto ai Pastori», dice il Pontefice, «voi esercitate il ministero in un Paese nel quale tante cose sono rapidamente cambiate e sono stati avviati molti processi democratici, ma la libertà è ancora fragile. Lo è soprattutto nel cuore e nella mente delle persone. Per questo vi incoraggio a farle crescere libere da una religiosità rigida. Uscire da questo, e che crescano liberi!». E insiste: «L’annuncio del Vangelo sia liberante, mai opprimente. E la Chiesa sia segno di libertà e di accoglienza!».
Una libertà che ha bisogno di creatività, come fecero Cirillo e Metodio che inventarono un nuovo alfabeto, una nuova lingua per dire il Vangelo. «Essi ci insegnano che l’evangelizzazione non è mai una semplice ripetizione del passato. La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse». I patroni d’Europa «furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano, furono così vicini alla storia dei popoli che incontravano da parlarne la loro lingua e assimilarne la cultura. Non ha bisogno di questo anche oggi la Slovacchia? Mi domando. Non è forse questo il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa: trovare nuovi “alfabeti” per annunciare la fede?».
Una Chiesa libera e creativa è anche una Chiesa che «sa dialogare con il mondo, con chi confessa Cristo senza essere “dei nostri”, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, anche con chi non crede. Non è selettiva di un gruppetto, no, dialoga con tutti: con i credenti, con quelli che portano avanti la santità, con i tiepidi e con i non credenti. Parla con tutti. È una Chiesa che, sull’esempio di Cirillo e Metodio, unisce e tiene insieme l’Oriente e l’Occidente, tradizioni e sensibilità diverse». Il Papa sa che «l’unità, la comunione e il dialogo sono sempre fragili, specialmente quando alle spalle c’è una storia di dolore che ha lasciato delle cicatrici. Il ricordo delle ferite può far scivolare nel risentimento, nella sfiducia, perfino nel disprezzo, invogliando a innalzare steccati davanti a chi è diverso da noi. Le ferite, però, possono essere varchi, aperture che, imitando le piaghe del Signore, fanno passare la misericordia di Dio, la sua grazia che cambia la vita e ci trasforma in operatori di pace e di riconciliazione».