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sabato 05 ottobre 2024
 
 

Chiesa, quella riforma mancata

21/02/2013  Il Pontefice ha espresso rammarico per non aver portato a termine il rinnovamento della Curia. Approfondimenti nel numero di Famiglia Cristiana in edicola e in parrocchia.

Non fu solo Celestino V a rinunciare al papato, dopo appena pochi mesi di pontificato, dal 5 luglio al 13 dicembre 1294. Altri, per ragioni diverse, fecero lo stesso gesto. Ma nella memoria collettiva è rimasto solo il ricordo di Pietro da Morrone, il monaco proclamato santo: forse anche per le poche parole molto critiche che gli ha dedicato Dante. Ma pare del tutto fuori luogo fare dei confronti con le dimissioni appena offerte da Benedetto XVI: è troppa la differenza del contesto storico e soprattutto della situazione della Chiesa cattolica.

Dopo quanto è stato scritto in ogni parte del mondo, diventa difficile provare a offrire qualche riflessione sull’evento: ma forse ne vale la pena. Le premesse di quel gesto si possono porre nella decisione di Giovanni XXIII di recuperare il suo ruolo di vescovo di Roma, un ruolo che sarebbe poi stato rivitalizzato dai suoi successori. Come si sa, il Papa è tale anche e soprattutto in quanto vescovo di Roma: ma da secoli ormai si era persa l’abitudine di considerare questo aspetto, vedendolo soprattutto come capo della cattolicità, centro di potere, persona sacra in quanto vicario di Cristo. Il recupero di quel ruolo avrebbe avuto diverse conseguenze, non ultima, il fatto che bisognava spostare l’attenzione dalla sua persona al suo ruolo, che possiamo in fondo ritrovare già nelle prime comunità cristiane: il vescovo è prima di tutto il pastore di una porzione di popolo e di una Chiesa. Deve cioè svolgere un compito determinato.

Come stupirsi se a un certo punto quel vescovo prende atto di non essere più in grado di svolgere quel ruolo, e lascia la direzione di quella Chiesa a un altro?
L’attenzione, quindi, si sposta dalla sacralità della persona al ruolo che deve svolgere. Paiono allora fuori luogo tutti i dibattiti sulla opportunità o meno di “scendere dalla Croce”. Ogni Papa ha il diritto di fare la scelta che ritiene migliore, non in vista di una più o meno importante affermazione della sua persona, ma in vista del compito che deve svolgere, che è quello di essere pastore di un popolo. Così come sembra fuori luogo di-re che il Papa doveva affidarsi alla Provvidenza. Proprio una delle sue ultime omelie a inizio Quaresima ci ricorda il «non tentare il Signore Dio tuo». Dio non si sostituisce alle persone, le lascia nelle loro debolezze. Il Papa non è Gesù Cristo, che non è sceso dalla croce, è colui che ci indica la via che ci porta a Gesù. Se non si sente più in grado, è così illogico che lasci il posto a un altro?

Vi è un altro elemento che sembra si possa desumere da tale scelta. Nonostante tutte le frasi che si possono dire, e sono dette nella Chiesa, sul fatto che chi sale in grado non fa carriera, ma compie un altro compito, la maggioranza anche dei credenti continua a pensare non in termine di servizio, ma appunto in termine di carriera. La domanda che molti si pongono sul cosa farà Benedetto XVI dopo il 28 febbraio è significativa. Ha raggiunto un alto grado di carriera, che posto dargli adesso? In fondo, stiamo ragionando con la stessa mentalità mondana: quando qualcuno lascia una carica, bisogna sempre dargli un’altra carica che non lo degradi. Ed è proprio a tale cultura che si rivolge la parola di Gesù, quando dice «Ma fra voi non sia così» (Mt 20, 26).

Da notare che, in fondo, è lo stesso problema che si pongono molte diocesi, quando un vescovo lascia il suo posto per raggiunti limiti di età, e ne viene inviato un altro. Ora, non si vede perché si dia per scontato che questo possa avvenire in tutte le diocesi, meno che in quella romana: sempre se si pensa che il Papa è anche vescovo di Roma. Logicamente questo ha una conseguenza: mette in causa il concetto di carriera, contro il quale tra l’altro proprio Benedetto XVI ha combattuto tutta la vita. Che cosa farà il Papa dopo, come lo chiameremo, come si vestirà? Anche tali domande hanno senso in un contesto totalmente mondano, ma si preferirebbe che non venissero troppo avanzate dalla stampa cattolica, dalla quale ci si attende un atteggiamento diverso.

Qui possiamo riprendere il riferimento a Celestino V, pur sapendolo storicamente improponibile.
La sua rinuncia procurò sollievo in alcuni, e rimpianti in altri: avevano sperato che fosse in grado di riformare la Curia. È il rimpianto che ha espresso Benedetto XVI, in prima persona: di non essere riuscito a portare a termine il suo sogno di una riforma profonda e significativa. Poi, si dice che Celestino V, deposti gli abiti pontifici, riprese il suo semplice abito di monaco: e ridivenne quello che era sempre stato, ma questo lo dice lo scrittore Ignazio Silone in L’avventura di un povero cristiano. Non pare segno di scarsa riverenza, ma di profonda stima per la persona, immaginare che l’umiltà di questo grande Papa lo porterà a fare la stessa cosa: riprenderà i suoi abiti di prete e di vescovo, e ci insegnerà con l’esempio a vivere da cristiani.

Questo servizio fa parte di un ampio speciale dedicato a Benedetto XVI e alla sua scelta, contenuto nel numero di Famiglia Cristiana ora in edicola e in parrocchia.

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