Parliamo seduti su un muretto del centro di accoglienza di Koinonia. Davanti a noi il gruppo vociante dei bambini, o meglio degli ex bambini di strada: lo erano fino alla primavera scorsa. Dietro a noi si apre Kibera, la più grande e invivibile baraccopoli di Nairobi, non si sa nemmeno quante persone vi abitino. All’orizzonte lo skyline del centro: i grattacieli della capitale kenyana, con i suoi uffici ultramoderni e le sedi delle grandi multinazionali. Boniface Buluma racconta le sue speranze riposte nell’imminente visita di papa Francesco, mentre abbiamo sotto gli occhi questo spaccato del Paese africano: il contrasto violento, stridente di ricchezza (di pochi) ed estrema povertà; il degrado degli slum, frutto di emarginazione moderna e antiche tremende eredità coloniali; la scuola negata, la salute negata, i diritti umani negati ogni giorno ad almeno due milioni e mezzo di abitanti di Nairobi, tanti sono quelli che vivono accatastati in baracche della periferia.
«Il problema-simbolo sono i bambini di strada», dice Boniface. Anche lui lo è stato. Poi ha incontrato padre Renato Kizito Sesana e la missione comboniana, ha studiato, è diventato un esperto nel recupero dalla devianza e dal disagio sociale, e negli slum ci torna tutti i giorni per togliere questi piccoli dalla strada e per sostenere le famiglie che ce li hanno fatti finire. «Vedi quanti rifiuti ammorbano l’aria di questo quartiere? I bambini abbandonati sono considerati allo stesso modo: rifiuti, cani da scacciare. Sono la ferita più dolorosa che sintetizza le piaghe del Kenya: sono il frutto di un’urbanizzazione selvaggia che ha disgregato la famiglia e i suoi valori tradizionali africani, sono l’emblema dello sradicamento. Sono i figli sospesi di questo Paese, non sanno da dove vengono, né dove vanno». Boniface guarda la trentina di piccoli davanti a noi: «Vorremmo portare loro dal Papa, ma anche gli altri: i rifiuti che vivono tra i rifiuti».
Francesco avrà anche loro davanti agli occhi, nell’incontro con i giovani, allo stadio Kasarani di Nairobi. E visiterà uno di questi luoghi di non-vita: la piccola baraccopoli di Kangemi, 30 mila persone. Non Kibera o Korogocho, dove la sicurezza del Papa sarebbe un problema serio. Occorre ricordare, infatti, che tra le piaghe del Kenya c’è anche il terrorismo degli shabab, i “cugini” dell’Isis che qui hanno compiuto stragi non meno efferate di quelle di Parigi (Westgate, che nel 2012 fu teatro di un’intera giornata di battaglia in pieno centro di Nairobi, è stato riaperto solo un mese fa).
«Spero, innanzitutto, che il Papa riesca a vedere la profonda e intollerabile diseguaglianza che vive questa città», dice il dottor Gianfranco Morino, il “medico dei poveri” che fin da neolaureato opera nelle baraccopoli. «Spero che percepisca i livelli disumani di violenza che questa gente subisce. Spero che dica chiaramente che il Kenya ha davvero bisogno qui di una chiesa dei poveri. Negli slum vedo i missionari, ma non il clero locale, sempre più chiuso nelle sacrestie. La Chiesa può e deve diventare un forte stimolo per combattere anche gli altri grandi mali del Kenya: la corruzione, le crescenti tensioni etniche, l’indifferenza della parte ricca del Paese verso l’immensa parte povera».