Domenica 15 novembre, Basilica di San Pietro, solenne Concelebrazione eucaristica in occasione della quarta Giornata mondiale dei poveri presieduta da papa Francesco, 83 anni. Foto Reuters. In alto: foto Osservatore Romano, vatican.va.
Non basta non far del male. Occorre far del bene. È il cuore dell'omelia pronunciata da papa Francesco nel corso della Messa celebrata oggi, 15 novembre, Giornata mondiale dei poveri. A causa della pandemia molte iniziative (come il pranzo con 1500 persone in difficoltà, nell'Aula Paolo VI) realizzate nelle scorse edizioni sono state necessariamente sospese. La fantasi della carità ne ha suscitato altre, dai tamponi gratis ai quintali di pasta distibuiti.
La riflessione di Jorge Mario Berroglio è stata ispirata dalla pagina di Vangelo di oggi: la parabola dei talenti. «Tutto comincia da un grande bene: il padrone non tiene per sé le sue ricchezze, ma le dà ai servi; a chi cinque, a chi due, a chi un talento, "secondo la capacità di ciascuno" (Mt 25,15). È stato calcolato che un solo talento corrispondeva al salario di circa vent’anni di lavoro: era un bene sovrabbondante, che allora bastava per tutta la vita. Ecco l’inizio: anche per noi tutto è cominciato con la grazia di Dio, che è Padre e ha messo nelle nostre mani tanto bene, affidando a ciascuno talenti diversi. Siamo portatori di una grande ricchezza, che non dipende da quante cose abbiamo, ma da quello che siamo: dalla vita ricevuta, dal bene che c’è in noi, dalla bellezza insopprimibile di cui Dio ci ha dotati, perché siamo a sua immagine, ognuno di noi è prezioso ai suoi occhi, unico e insostituibile nella storia!».
Foto: Osservatore Romano, vatican.va
«Resistiamo alla tentazione del "magari", magari fossi, magari avessi»
««Quant’è importante ricordare questo», ha sottolineato il Papa: «troppe volte, guardando alla nostra vita, vediamo solo quello che ci manca. Allora cediamo alla tentazione del “magari!...”: magari avessi quel lavoro, magari avessi quella casa, magari avessi soldi e successo, magari non avessi quel problema, magari avessi persone migliori attorno a me!... L’illusione del “magari” ci impedisce di vedere il bene e ci fa dimenticare i talenti che abbiamo. Ma Dio ce li ha affidati perché conosce ognuno di noi e sa di cosa siamo capaci; si fida di noi, nonostante le nostre fragilità. Si fida anche di quel servo che nasconderà il talento: spera che, malgrado le sue paure, anche lui utilizzi bene quanto ha ricevuto. Insomma, il Signore ci chiede di impegnare il tempo presente senza nostalgie per il passato, ma nell’attesa operosa del suo ritorno».
Si arriva così al centro della parabole. «È l’opera dei servi, cioè il servizio. Il servizio è anche la nostra opera, quello che fa fruttare i talenti e dà senso alla vita: non serve infatti per vivere chi non vive per servire. Ma qual è lo stile del servizio? Nel Vangelo i servi bravi sono quelli che rischiano.Non sono cauti e guardinghi, non conservano quel che hanno ricevuto, ma lo impiegano. Perché il bene, se non si investe, si perde; perché la grandezza della nostra vita non dipende da quanto mettiamo da parte, ma da quanto frutto portiamo. Quanta gente passa la vita solo ad accumulare, pensando a stare bene più che a fare del bene. Ma com’è vuota una vita che insegue i bisogni, senza guardare a chi ha bisogno! Se abbiamo dei doni, è per essere doni. Va sottolineato che i servi che investono, che rischiano, per quattro volte sono chiamati «fedeli» (vv. 21.23). Per il Vangelo non c’è fedeltà senza rischio. Essere fedeli a Dio è spendere la Vita, è lasciarsi sconvolgere i piani dal servizio. È triste quando un cristiano gioca sulla difensiva, attaccandosi solo all’osservanza delle regole e al rispetto dei comandamenti. Questo non basta, la fedeltà a Gesù non è solo non commettere errori. Così pensava il servo pigro della parabola: privo di iniziativa e creatività, si nasconde dietro un’inutile paura e seppellisce il talento ricevuto. Il padrone lo definisce addirittura «malvagio» (v. 26). Eppure non ha fatto nulla di male! Già, ma non ha fatto niente di bene. Ha preferito peccare di omissione piuttosto che rischiare di sbagliare. Non è stato fedele a Dio, che ama spendersi; e gli ha recato l’offesa peggiore: restituirgli il dono ricevuto. Il Signore ci invita invece a metterci in gioco generosamente, a vincere il timore con il coraggio dell’amore, a superare la passività che diventa complicità. Oggi, in questi tempi di incertezza e fragilità, non sprechiamo la vita pensando solo a noi stessi».
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«In questi tempi di incertezza e fragilità non sprechiamo la vita pensando solo a noi stessi»
San Paolo invita a guardare in faccia la realtà. «Come servire secondo i desideri di Dio? Il padrone lo spiega al servo infedele: «Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse» (v. 27). Chi sono per noi questi “banchieri”, in grado di procurare un interesse duraturo? Sono i poveri: essi ci garantiscono una rendita eterna e già ora ci permettono di arricchirci nell’amore Perché la più grande povertà da combattere è la nostra povertà d’amore. Il Libro dei Proverbi loda una donna operosa nell’amore, il cui valore è superiore alle perle: è da imitare questa donna che, dice il testo, «stende la mano al povero» (Pr 31,20). Tendi la mano a chi ha bisogno, anziché pretendere quello che ti manca: così moltiplicherai i talenti che hai ricevuto. Arriviamo così al finale della parabola: ci sarà chi avrà in abbondanza e chi avrà sprecato la vita e resterà povero (cfr v. 29). Alla fine della vita, insomma, sarà svelata la realtà: tramonterà la finzione del mondo, secondo cui il successo, il potere e il denaro danno senso all’esistenza, mentre l’amore, quello che abbiamo donato, emergerà come la vera ricchezza. Un grande Padre della Chiesa scriveva: "Così avviene nella vita: dopo che è sopraggiunta la morte ed è finito lo spettacolo, tutti si tolgono la maschera della ricchezza e della povertà e se ne vanno via da questo mondo. E sono giudicati solamente in base alle loro opere, alcuni realmente ricchi, altri poveri" (S. Giovanni Crisostomo, Discorsi sul povero Lazzaro, II, 3). Se non vogliamo vivere poveramente, chiediamo la grazia di vedere Gesù nei poveri, di servire Gesù nei poveri».
La chiusura dell'omelia Francesco la dedica ad esprimere gratitudine all'esercito operoso di tanti uomini e donne di Dio che hanno scelto di stare accanto agli emarginati, agli ultimi. «Vorrei ringraziare tanti servi fedeli di Dio, che non fanno parlare di sé, ma vivono così. Penso, ad esempio, a don Roberto Malgesini. Questo prete non faceva teorie; semplicemente, vedeva Gesù nel povero e il senso della vita nel servire. Asciugava lacrime con mitezza, in nome di Dio che consola. L’inizio della sua giornata era la preghiera, per accogliere il dono di Dio; il centro della giornata la carità, per far fruttare l’amore ricevuto; il finale, una limpida testimonianza del Vangelo. Aveva compreso che doveva tendere la sua mano ai tanti poveri che quotidianamente incontrava, perché in ognuno di loro vedeva Gesù. Chiediamo la grazia di non essere cristiani a parole, ma nei fatti. Per portare frutto, come desidera Gesù».