Gli ultimi due giorni del viaggio
africano di papa Francesco (il 29 e il 30 novembre è in Repubblica
Centrafricana) sono i più delicati, dal punto di vista della
sicurezza. Qui la guerra è in corso. Sembrava essersi placata, ma
nuovi scontri sono ricominciati a fine settembre, proprio nella
capitale Bangui. La gente, tanta, ha lasciato di nuovo le proprie
case riportando indietro l’orologio ai momenti peggiori del
conflitto. Oggi, gli sfollati interni sono quasi 900 mila (foto in alto), su una
popolazione di 4 milioni e mezzo di abitanti.
La guerra è scoppiata alla fine del
2012, quando il movimento islamico Seleka (sostenuto anche da
mercenari ciadiani e sudanesi) ha costretto l’allora presidente
François Bozizé (salito al potere con un golpe nel 2003) a
dimettersi e a fuggire all’estero. Da allora, mentre nella capitale
si combatteva (militarmente e politicamente) per la conquista del
potere, l’intero Paese è sprofondato nelle violenze fra i
gruppi armati del movimento Seleka e i loro avversari, denominati
anti-balaka.
Le tensioni sono progressivamente
diminuite da un lato con l’elezione – da parte del Parlamento,
non a suffragio universale – dell’attuale presidente di
transizione, Catherine Samba-Panza, il 20 gennaio 2014, e del suo
(debole) Governo; dall’altro con l’arrivo dei caschi blu
dell’Onu, rinforzati anche da una missione militare francese di 6
mila soldati.
Il Paese rimane una polveriera,
anche perché si trascina dietro una realtà di povertà fra le
peggiori del mondo: già prima del conflitto l’indice mondiale
dello sviluppo umano lo collocava al 171° posto su un totale di 177 Paesi esaminati.