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sabato 12 ottobre 2024
 
Vaticano
 

Il Papa: «La Chiesa deve essere senza muri, aperta a tutti. L'annuncio del Vangelo non è neutrale»

29/06/2022  «Per favore», chiede il Pontefice nella festa dei santi Pietro e Paolo, «non distilliamo la Parola del Signore e non apriamo le porte per congedare e condannare le persone, ma per accoglierle. No alla perversione del clericalismo»

Alla fine della messa i palli, portati in basilica dalla tomba di San Pietro dove erano custoditi, vengono consegnati ai nuovi arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno. Il Papa li aveva benedetti all’inizio della messa celebrata nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma. Francesco nel corso dell’omelia, li incoraggia ad «“alzarsi in fretta”, non dormire, per essere sentinelle vigilanti del gregge e alzati per  “combattere la buona battaglia”, mai da soli, ma con tutto il santo Popolo fedele di Dio. E come buoni pastori devono essere dietro al popolo, in mezzo al popolo e avanti al popolo, ma sempre con il popolo perché essi sono parte del santo popolo fedele di Dio».

Come è consuetudine in Basilica è presente anche una delegazione del Patriarcato Ecumenico guidata dall’arcivescovo di Telmissos Job, che è anche rappresentante del Patriarcato Ecumenico presso il Consiglio ecumenico delle Chiese e co-presidente della Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Con lui il vescovo di Alicarnassos, Adrianos e il Diacono patriarcale Barnabas Grigoriadis. Francesco ringrazia il patriarca Bartolomeo per il loro invio: «Grazie, grazie per la vostra presenza e del messaggio di Bartolomeo, grazie per camminare insieme perché solo insieme possiamo essere seme di Vangelo e testimoni di fraternità».

Nell’omelia il Papa ricorda la testimonianza di Pietro e Paolo. A Pietro, incarcerato da Erode, l’angelo del Signore dice «Alzati, in fretta». Il secondo, riassume la sua vita con le parole:  «Ho combattuto la buona battaglia». Il Pontefice si sofferma su questi due aspetti, «alzarsi in fretta e combattere la buona battaglia»,  chiedendosi cosa possono dire alla comunità cristiana impegnata con il Sinodo.

Il primo aspetto, l’alzarsi in fretta evoca la Pasqua «perché qui troviamo due verbi usati nei racconti della risurrezione: svegliare e alzarsi. Significa che l’angelo risvegliò Pietro dal sonno della morte e lo spinse ad alzarsi, cioè a risorgere, a uscire fuori verso la luce, a lasciarsi condurre dal Signore per superare la soglia di tutte le porte chiuse». Anche alla Chiesa di oggi, a noi tutti, è chiesto di svegliarci e di alzarci in fretta «per entrare nel dinamismo della risurrezione e per lasciarci condurre dal Signore sulle strade che Egli vuole indicarci». Tante resistenze ci spingono a stare seduti, nelle nostre comodità «a contemplare le poche cose sicure che possediamo, invece di alzarci per gettare lo sguardo verso orizzonti nuovi, verso il mare aperto». Siamo incatenati alle abitudini, ma, avverte il Papa, «così si scivola nella mediocrità spirituale, si corre il rischio di “tirare a campare” anche nella vita pastorale, si affievolisce l’entusiasmo della missione e, invece di essere segno di vitalità e di creatività, si finisce per dare un’impressione di tiepidezza e di inerzia». Cita il grande teologo de Lubac, per dire che così «la grande corrente di novità e di vita che è il Vangelo nelle nostre mani diventa una fede che “cade nel formalismo e nell’abitudine, […] religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari […]. Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento, cristianesimo indurito”».

Il Sinodo chiede alla Chiesa di alzarsi in piedi di essere «capace di spingere lo sguardo oltre, di uscire dalle proprie prigioni per andare incontro al mondo col coraggio di aprire le porte. Ma in quella notte c’è anche un’altra tentazione. La ragazza spaventata che, invece che aprire la porta torna indietro a raccontare delle fantasie». Il Papa esorta: «Apriamo le porte, è il Signore che chiama. Non siamo come il re Erode che torna indietro». Il Signore chiede alla Chiesa di essere «senza catene e senza muri», una Chiesa «in cui ciascuno possa sentirsi accolto e accompagnato, in cui si coltivino l’arte dell’ascolto, del dialogo, della partecipazione, sotto l’unica autorità dello Spirito Santo. Una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia, non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti. Non dimentichiamo questa parola: tutti. Tutti. Andate all’incrocio delle strade e portate tutti: ciechi, sordi, zoppi, ammalati, giusti e peccatori, tutti. Tutti. Questa parola del Signore deve risuonare nella mente e nel cuore: tutti. Nella Chiesa c’è posto per tutti. E tante volte noi diventiamo una Chiesa della porta aperta, ma per congedare gente, per condannare gente. Iri uno di voi mi diceva: per la Chiesa questo non è il tempo dei congedi, è il tempo dell’accoglienza. Non sono venuti al banchetto, andate all’incrocio». Il Papa ripete più volte la parola «Tutti», anche se sono peccatori, «tutti».

Sul secondo aspetto, invece, Paolo si riferisce alle volte in cui, nonostante le persecuzioni e la sofferenza, ha continuato ad annunciare il Vangelo. Alla fine della vita vede «nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù, preferendo andare dietro ai propri interessi e ad altri maestri più comodi, più facili, più secondo la nostra volontà. Paolo ha affrontato il suo combattimento e, ora che ha terminato la corsa, chiede a Timoteo e ai fratelli della comunità di continuare questa opera con la vigilanza, l’annuncio, gli insegnamenti: ciascuno, insomma, compia la missione affidatagli e faccia la sua parte».

La sua testimonianza dice che a ciascuno di noi che siamo chiamati a essere missionari, a dare il nostro contributo. Il Papa chiede di farsi due domande: «La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi. Chiesa sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. Non ci sono cristiani di prima o di seconda classe: tutti. Tutti sono chiamati».

Tutti siamo chiamati a portare avanti la «“buona battaglia” di cui parla Paolo. Si tratta in effetti di una “battaglia”, perché l’annuncio del Vangelo non è neutrale. Per favore», dice Francesco, «che il Signore ci liberi di distillare il Vangelo per farlo neutrale. Il vangelo non è acqua distillata. L’annunzio del Vangelo non è neutrale, non lascia le cose come stanno, non accetta il compromesso con le logiche del mondo ma, al contrario, accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione».

Dalla morte e risurrezione di Gesù, dice il Pontefice citando il cardinale Martini,  «è iniziata una grande battaglia tra la vita e la morte, tra speranza e disperazione, tra rassegnazione al peggio e lotta per il meglio, una battaglia che non avrà tregua fino alla sconfitta definitiva di tutte le potenze dell’odio e della distruzione».

La seconda domanda è «cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini? Non dobbiamo certamente chiuderci nei nostri circoli ecclesiali e inchiodarci a certe nostre discussioni sterili. State attenti nel non cadere nel clericalismo». Il clericalismo, sottolinea Bergoglio, «è una perversione. Il ministro che si fa clericale con atteggiamento clericale ha preso una strada sbagliata, peggio ancora sono i laici clericalizzati, stiamo attenti a questa perversione del clericalismo, aiutiamoci a essere lievito nella pasta del mondo. Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quello delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: e questa è la nostra “buona battaglia”, questa la sfida». Francesco ribadisce: «Le tentazioni di rimanere sono tante. La tentazione della nostalgia, che ci fa guardare altri sono stati tempi migliori. Ma per favore non cadiamo nell’indietrismo, questo indietrismo di Chiesa che oggi è alla moda».

 
 
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