Tre libri da leggere per Natale. Così, con questo dono, papa Francesco ha concluso gli auguri alla curia romana. Dopo il saluto del cardinale Giovan Battista Re, decano del collegio cardinalizio, Francesco ha incentrato il suo discorso tutto sul concetto di umiltà. Per farlo, ha preso a esempio la figura di Naaman il Siro, che, ha confessato alla fine del suo discorso, gli è venuta in mente leggendo il testo di don Epicoco, uno dei tre regalati ai capi dicastero. Un uomo potente, forte nella sua armatura che, però, nasconde la sua fragilità: un corpo malato di lebbra. Questa è la fragilità di ogni essere umano che, nel suo ruolo, si sente protetto, adulato dagli altri, ma che, sotto la superficie, nasconde la sua malattia. Tra i libri, oltre a quello di don Luigi Maria Epicoco, La pietra scartata, quando i dimenticati si salvano, il Papa ha voluto regalare anche il testo di del sottosegretario della Dottrina della Fede, monsignor Armando Matteo, Convertire Peter Pan, e quello del nunzio apostolico monsignor Fortunatus Nwachukwu, che ha fatto una riflessione sul chiacchiericcio. Papa Francesco aveva, prima ricordato tre parole fondamentali: partecipazione, comunione e missione. Su queste si basa la vera identità dei credenti e della Chiesa. “Tutti lo sappiamo”, ha detto, “il mistero del Natale è il mistero di Dio che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà. Si è fatto carne: quella grande synkatabasis. Questo tempo sembra aver dimenticato l’umiltà, o pare l’abbia semplicemente relegata a una forma di moralismo, svuotandola della dirompente forza di cui è dotata. Ma se dovessimo esprimere tutto il mistero del Natale in una parola, credo che la parola umiltà è quella che maggiormente ci può aiutare. I Vangeli ci parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire. Eppure il Re dei re viene nel mondo non attirando l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia. Per questo mi piace pensare e anche dire che l’umiltà è stata la sua porta d’ingresso e ci invita, tutti noi, ad attraversarla. Mi viene in mente quel passo degli Esercizi: non si può andare avanti senza umiltà, e non si può andare avanti nell’umiltà senza umiliazioni. E Sant’Ignazio ci dice di chiedere le umiliazioni”.
Poi ha raccontato la storia di Naamam il Siro che si libera della sua lebbra dando ascolto al profeta Eliseo. “Questi chiede a Naaman, come unica condizione per la sua guarigione, il semplice gesto di spogliarsi e lavarsi sette volte nel fiume Giordano. Niente fama, niente onore, oro né argento! La grazia che salva è gratuita, non è riducibile al prezzo delle cose di questo mondo. Naaman resiste a questa richiesta, gli sembra troppo banale, troppo semplice, troppo accessibile. Sembra che la forza della semplicità non avesse spazio nel suo immaginario. Ma le parole dei suoi servi lo fanno ricredere: «Se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che egli ti ha detto: “Lavati, e sarai guarito”?» (2 Re 5,13). Naaman si arrende, e con un gesto di umiltà “scende”, toglie la sua armatura, si cala nelle acque del Giordano, «e la sua carne tornò come la carne di un bambino; egli era guarito» (2 Re 5,14). La lezione è grande! L’umiltà di mettere a nudo la propria umanità, secondo la parola del Signore, ottiene a Naaman la guarigione. La storia di Naaman ci ricorda che il Natale è un tempo in cui ognuno di noi deve avere il coraggio di togliersi la propria armatura, di dismettere i panni del proprio ruolo, del riconoscimento sociale, del luccichio della gloria di questo mondo, e assumere la sua stessa umiltà”.
E poi insiste il Papa, bisogna liberarsi della “mondanità spirituale, che a differenza di tutte le altre tentazioni è difficile da smascherare, perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità”. Bisogna essere capaci di non vivere solo il presente, ma di andare alle radici per generare germogli. Un persocorso a cui tutti siamo chiamati e “Tutti non è una parola fraintendibile! Il clericalismo che come tentazione – perversa – serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire. Il Sinodo è cerca di essere l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio, e pertanto discepoli che ascoltano e, proprio in virtù di questo ascolto, possono anche comprendere la volontà di Dio, che si manifesta sempre in maniera imprevedibile. Sarebbe però sbagliato pensare che il Sinodo sia un evento riservato alla Chiesa come entità astratta, distante da noi. La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui e che viviamo l’esperienza del servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana”.
La curia, sottolinea il Papa, “non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza, e proprio per questo acquista sempre più autorevolezza ed efficacia quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale alla quale anch’essa è chiamata. L’organizzazione che dobbiamo attuare non è di tipo aziendale, ma di tipo evangelico”.
Bisogna partire dalla sobrietà e dai poveri, ma anche dalla partecipazione di tutti, dalla comunione che non è complicità, non è creare dei partiti o lavorare solo con chi ci è affine, e dalla missione. “La persona con cuore missionario”, dice il Papa, “sente che suo fratello le manca e, con l’atteggiamento del mendicante, va a incontrarlo. La missione ci rende vulnerabili – è bello, la missione ci rende vulnerabili –, ci aiuta a ricordare la nostra condizione di discepoli e ci permette di riscoprire sempre di nuovo la gioia del Vangelo. Partecipazione, missione e comunione sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa. Diceva Henri de Lubac: «Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva. [...] Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri [...]; è difficile, o piuttosto impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione, riconoscere in questo fatto il compimento della kenosi salvifica, la traccia adorabile dell’umiltà di Dio».
“In conclusione”, dice il Papa, “desidero augurare a voi e a me per primo, di lasciarci evangelizzare dall’umiltà, dall’umiltà del Natale, dall’umiltà del presepe, della povertà ed essenzialità in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo. Persino i Magi, che certamente possiamo pensare venissero da una condizione più agiata di Maria e di Giuseppe o dei pastori di Betlemme, quando si trovano al cospetto del bambino si prostrano (cfr Mt 2,11). Si prostrano. Non è solo un gesto di adorazione, è un gesto di umiltà. I Magi si mettono all’altezza di Dio prostrandosi sulla nuda terra”.
E allora va fatta memoria “della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli, lasciamoci evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù. Solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza. Siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità”.