Il Municipio di Sarajevo. Foto Reuters.
E' la terra di un altro genocidio, negato in punta di diritto, ma del tutto evidente nelle memorie che la società ricorda e tramanda e nelle testimonianze di chi ha vissuto l’orrore. Sabato 6 giugno papa Francesco arriva a Sarajevo e in Bosnia, l’ultimo Paese teatro nel Novecento della tremenda filiera di tragedie che ha avuto il suo culmine nella Shoah. Lo ha detto con chiarezza lui stesso nella Messa in rito armeno celebrata a San Pietro il 12 aprile in occasione del centenario del «Grande Male», applicando la semantica della Shoah, cioè la presenza contemporanea della deportazione e dell’eliminazione fisica, al destino del popolo armeno, usando la parola «genocidio».
Per Bergoglio la deportazione e l’eliminazione – con il corollario di distruzioni di edifici e di luoghi di culto – della nazione armena, cento anni fa, segna il prototipo di tutte le pulizie etniche e gli stermini del Novecento, da Hitler a Stalin, fino alla Cambogia dei Khmer rossi, al Ruanda e Burundi e fino alla Bosnia. Dunque, se si nega il primo, ha praticamente ammonito Bergoglio, si mette in crisi la comprensione del Novecento e si rischia di attenuare la consapevolezza delle catene di tragedie del secolo scorso.
Anche nei Balcani, ultimo anello di quella catena, si discute attorno al concetto giuridico di genocidio con il corollario, in questi casi, dei negazionismi intrecciati, soprattutto riguardo al massacro di Srebrenica di cui, pochi giorni dopo la missione del Papa a Sarajevo, si ricorderanno i vent’anni. Il messaggio che porta Bergoglio, riassunto nel motto del viaggio Mir vama, cioè «La pace sia con voi», indica che la strada, come per la tragedia armena, dev'essere quella non solo di trovare una memoria collettiva, ma soprattutto una memoria condivisa di ciò che è accaduto, altrimenti non si potrà ricomporre il quadro drammatico che Sarajevo e l’intera Bosnia propongono ancora a vent’anni dalla fine della guerra. Nota il vescovo ausiliare di Sarajevo, monsignor Pero Sudar: «Se continuiamo ad accanirci ognuno nella ricerca di una propria verità contrapposta, la strada sarà quella di distruggere dal di dentro ogni speranza, anche a lungo termine». È una riflessione severa e realista dell’impasse di un Paese bloccato nel percorso diintegrazione interna e incapace di avviare quello esterno con l’Europa.
Una veduta di Sarajevo dall'alto. In primo piano, la Biblioteca nazionale. Il restauro dell'edificio, gravemente danneggiato durante la guerra, è terminato nel maggio 2014. Foto Reurters.
La Bosnia è congelata nell’architettura degli accordi di Dayton del
1995, che fecero tacere le armi, ma resero del tutto impossibile la
ricostruzione di un Paese condiviso.Vent’anni dopo la situazione è
giudicata la peggiore mai vista dall’ultimo Progress Report della
Commissione europea. L’accordo di stabilizzazione, primo passo verso
l’integrazione europea, firmato a Bruxelles ormai sette anni fa, è
bloccato perché le autorità bosniache non hanno attuato la sentenza
della Corte per i diritti umani di Strasburgo conosciuta come
Sejdic-Finci, due cittadini bosniaci, rispettivamente rom ed ebreo, i
quali si erano appellati per violazione dei loro diritti elettorali. La
Corte ha stabilito che la Costituzione della Bosnia viola la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, perché limita la possibilità di essere
eletti alla presidenza collettiva (in Bosnia ci sono tre presidenti, serbo, croato e musulmano,
che ruotano ogni otto mesi) ai soli cittadini di etnia serba, croata o
musulmana, invece che a tutti i cittadini senza discriminazione su base
etnica.
L’attuazione della sentenza comporta una modifica della Costituzione e
della legge elettorale che nessuno vuole apportare. Accanto all’impasse
politica c’è la crisi, con la disoccupazione di metà della popolazione,
privatizzazioni da rapina, corruzionea tutti i livelli, servizi
inesistenti e un quadro economico tremendo, anche per la drastica
riduzione delle rimesse dall’estero, praticamente unica risorsa del
Paese. Il sistema burocratico degli accordi di Dayton – due
entità, la Repubblica serba e la Federazione croato musulmana, tre
presidenti, tre Parlamenti, oltre cento ministri,un numero infinito di
Governi locali – consuma enormi risorse, non restituisce quasi nulla ai
cittadini in termini di servizie serve solo per proteggere élite
corrotte. La contrapposizione su tutto tra le etnie è il pane
quotidiano di Sarajevo, con il risultato di una crescente
radicalizzazione delle posizioni: da una parte i serbi sempre più
coccolati da Mosca e dall’altra i musulmani bosniaci sempre più stretti
dall’abbraccio dell’islam wahabita dei Paesi del Golfo, Qatar in testa, con il rischio di scivolare nell’inquietudine del salafismo più radicale.
Così sfuma l’immagine di Sarajevo «Gerusalemme dei Balcani», perché sono
troppi coloro che, per interesse personale o per insipienza geopolitica
o solo per dissimulare le proprie responsabilità nella tragedia dei
Balcani, preferiscono che la città si trasformi in una sorta di grandioso
parco delle fedi, una cartolina costruita a tavolino che tradisce la
vera vocazione di un luogo multietnico dove per secoli hanno
convissuto musulmani, cristiani di diverse confessioni ed ebrei edove le
religioni si sono ritrovate accanto e si sono sempre protette. Bergoglio
a Sarajevo va a tentare di avviare un processo nuovo, secondo il
suo stile, e a strappare le maschere della purezza identitaria che i
sacerdoti della guerra e del dopoguerra hanno imposto sui volti della
gente.