La consacrazione dell’altare della cattedrale dedicata a Maria La Antigua è l’occasione per papa Francesco per ribadire l’importanza delle radici per la costruzione del futuro. «Non mi sembra un avvenimento di poco conto», sottolinea Bergoglio, «che questa Cattedrale riapra le porte dopo un lungo tempo di restauro. Ha sperimentato il passare degli anni, come fedele testimone della storia di questo popolo, e con l’aiuto e il lavoro di molti ha voluto di nuovo regalare la sua bellezza. Più che una formale ricostruzione, che tenta sempre di ritornare a un originale passato, ha cercato di ritrovare la bellezza degli anni aprendosi a ospitare tutta la novità che il presente le poteva dare. Una Cattedrale spagnola, india e afroamericana diventa così Cattedrale panamense, di quelli di ieri, ma anche di quelli di oggi che l’hanno resa possibile». E, dunque, «non appartiene più solo al passato, ma è bellezza del presente.
Un altare costruito in Italia, a Pietrasanta, con marmo di Carrara. L'azienda Barsanti, oltre all'alatare maggiore e al pulpito, ha costruito anche l’altare per gli oli sacri e per le reliquie (sono state portate quelle di Romero, Giovanni Paolo II, Santa Rosa da Lima e San Martin de Porres) e quello dedicato a Santa Maria La Antigua, patrona di Panama
Oggi è nuovamente grembo che stimola a rinnovare e alimentare la speranza, a scoprire come la bellezza di ieri diventi base per costruire la bellezza di domani. Così agisce il Signore». E poi esorta: «Fratelli, non lasciamoci rubare la bellezza che abbiamo ereditato dai nostri padri! Essa sia la radice viva e feconda che ci aiuti a continuare a rendere bella e profetica la storia della salvezza in queste terre».
Nell’omelia della messa celebrata con i sacerdoti, i consacrati e rappresentanti dei movimenti laicali, aveva ricordato lo sforzo della missione e dell’impegno per «portare la Buona Notizia ai poveri, fasciare i cuori feriti, proclamare la liberazione ai prigionieri e la libertà ai prigionieri, consolare chi si trovava nel dolore e proclamare un anno di grazia per tutti». Queste, dice il Papa, «sono tutte situazioni che ti prendono la vita e l’energia». Per questo anche Gesù, affaticato dal viaggio, chiede ristoro a una samaritana. «Il Signore si è affaticato, e in questa fatica trovano posto tante stanchezze dei nostri popoli e della nostra gente, delle nostre comunità e di tutti quelli che sono affaticati e oppressi. Le cause e i motivi che possono provocare la fatica del cammino in noi sacerdoti, consacrati e consacrate, membri dei movimenti laicali, sono molteplici: dalle lunghe ore di lavoro che lasciano poco tempo per mangiare, riposare e stare in famiglia, fino a “tossiche” condizioni lavorative e affettive che portano allo sfinimento e logorano il cuore; dalla semplice e quotidiana dedizione fino al peso rutinario di chi non trova il gusto, il riconoscimento o il sostegno per far fronte alle necessità di ogni giorno; dalle abituali e prevedibili situazioni complicate fino alle stressanti e angustianti ore di tensione. Tutta una gamma di pesi da sopportare».
Sono fatiche che «sgretolano la vita dei consacrati» e che rendono «urgente trovare un pozzo che possa placare e saziare la sete e la stanchezza del percorso».
Ma c’è anche una stanchezza che non ha nulla a che vedere con quella del Signore: «Si tratta di una tentazione che potremmo chiamare la stanchezza della speranza. Quella stanchezza che nasce quando – come nel vangelo – i raggi del sole cadono a piombo e rendono le ore insopportabili, e lo fanno con un’intensità tale da non permettere di avanzare o di guardare avanti».
Questa non è, dice Francesco, quella «particolare fatica del cuore di chi, “a pezzi” per il lavoro, alla fine della giornata riesce a mostrare un sorriso sereno e grato», ma «quell’altra stanchezza, quella che nasce di fronte al futuro quando la realtà “prende a schiaffi” e mette in dubbio le forze, le risorse e la praticabilità della missione in questo mondo che tanto cambia e mette in discussione.
È una stanchezza paralizzante. Nasce dal guardare avanti e non sapere come reagire di fronte all’intensità e all’incertezza dei cambiamenti che come società stiamo attraversando».
Questa «stanchezza della speranza», che «nasce dal constatare una Chiesa ferita dal suo peccato» ci rende «sfiduciati verso una realtà che non comprendiamo o in cui crediamo non ci sia più spazio per la nostra proposta». E allora finisce che diamo «“cittadinanza” a una delle peggiori eresie possibili nella nostra epoca: pensare che il Signore e le nostre comunità non hanno nulla da dire né da dare in questo nuovo mondo in gestazione. E allora succede che ciò che un giorno è nato per essere sale e luce del mondo, finisce per offrire la propria versione peggiore».
La fatica va ristorata, ma non con qualsiasi cosa. Il Papa ricorda che la Samaritana «portava da anni i recipienti vuoti di amori falliti» perché «non qualsiasi parola può aiutare a recuperare le forze e la profezia nella missione. Non qualsiasi novità, per quanto seducente possa apparire, può alleviare la sete. Sappiamo, come lei sapeva bene, che nemmeno la conoscenza religiosa, la giustificazione di determinate scelte e tradizioni passate o presenti, ci rendono sempre fecondi e appassionati “adoratori in spirito e verità”».
Imparare a «chiedere da bere» significa aprire «la porta della nostra stanca speranza per tornare senza paura al pozzo fondante del primo amore, quando Gesù è passato per la nostra strada, ci ha guardato con misericordia, ci ha chiesto di seguirlo; nel dirlo, recuperiamo la memoria di quel momento in cui i suoi occhi hanno incrociato i nostri, il momento in cui ci ha fatto sentire che ci amava, e non solo in modo personale ma anche come comunità».
Non si tratta, ripete il Papa come ha già fatto tante volte, di elaborare chissà quali piani pastorali o strutture particolari, ma dare voce allo Spirito Santo che «per mezzo di tanti “santi della porta accanto” – tra i quali troviamo padri e madri fondatori dei vostri istituti, vescovi e parroci che hanno saputo dare basi solide alle loro comunità –, ha dato vita e ossigeno a un determinato contesto storico che sembrava soffocare e schiacciare ogni speranza e dignità. “Dammi da bere” significa avere il coraggio di lasciarsi purificare e di recuperare la parte più autentica dei nostri carismi originari – che non si limitano solo alla vita religiosa, ma a tutta la Chiesa – e vedere in quali modalità si possano esprimere oggi.
Si tratta non solo di guardare con gratitudine il passato, ma di andare in cerca delle radici della sua ispirazione e lasciare che risuonino nuovamente con forza tra di noi».