«La conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica». San Paolo rivolge queste parole ai fratelli e alle sorelle della comunità cristiana di Corinto: una comunità ricca di molti carismi, a cui l’Apostolo spesso raccomanda, nelle sue lettere, di coltivare la comunione nella carità. Noi le ascoltiamo mentre ringraziamo insieme il Signore per la Chiesa di Singapore, pure ricca di doni, vivace, in crescita e in dialogo costruttivo con le varie altre Confessioni e Religioni con cui condivide questa terra meravigliosa. Proprio per questo, vorrei commentare le stesse parole prendendo spunto dalla bellezza di questa città, e dalle grandi e ardite architetture che contribuiscono a renderla così famosa e affascinante, cominciando dall’impressionante complesso del National Stadium, in cui ci troviamo.
E vorrei farlo ricordando che, in ultima analisi, anche all’origine di queste imponenti costruzioni, come di ogni altra impresa che lasci un segno positivo in questo mondo, non ci sono, come molti pensano, prima di tutto i soldi, né la tecnica e nemmeno l’ingegneria – tutti mezzi utili, molto utili –, ma l’amore: “l’amore che edifica”, appunto. Forse qualcuno potrebbe pensare che questa sia un’affermazione ingenua, ma se ci riflettiamo bene non è così. Non c’è opera buona, infatti, dietro cui non ci siano delle persone magari geniali, forti, ricche, creative, ma pur sempre donne e uomini fragili, come noi, per i quali senza amore non c’è vita, né slancio, né motivo per agire, né forza per costruire.
Cari fratelli e sorelle, se qualcosa di buono c’è e rimane in questo mondo, è solo perché, in infinite e varie circostanze, l’amore ha prevalso sull’odio, la solidarietà sull’indifferenza, la generosità sull’egoismo. Senza questo, anche qui nessuno avrebbe potuto far crescere una metropoli così grande, gli architetti non avrebbero progettato, gli operai non avrebbero lavorato e nulla si sarebbe potuto realizzare.
Allora ciò che noi vediamo è un segno, e dietro ciascuna delle opere che ci stanno di fronte ci sono tante storie d’amore da scoprire: di uomini e donne uniti gli uni agli altri in una comunità, di cittadini dediti al loro Paese, di madri e padri solleciti per le loro famiglie, di professionisti e lavoratori di ogni genere e grado, onestamente impegnati nei loro diversi ruoli e mansioni. E ci fa bene imparare a leggerle, queste storie, scritte sulle facciate delle nostre case e sui tracciati delle nostre strade, e tramandarne la memoria, per ricordarci che nulla di duraturo nasce e cresce senza l’amore.
A volte succede che la grandezza e l’imponenza dei nostri progetti possono farcelo dimenticare, illudendoci di potere, da soli, essere gli autori di noi stessi, della nostra ricchezza, del nostro benessere, della nostra felicità, ma alla fine la vita ci riporta ad un’unica realtà: senza amore non siamo nulla. La fede, poi, ci conferma e ci illumina ancora di più circa questa certezza, perché ci dice che alla radice della nostra capacità di amare e di essere amati c’è Dio stesso, che con cuore di Padre ci ha desiderati e portati all’esistenza in modo totalmente gratuito e che in modo altrettanto gratuito ci ha redenti e liberati dal peccato e dalla morte, con la morte e risurrezione del suo Figlio Unigenito. È in Lui, in Gesù, che ha origine e compimento tutto ciò che siamo e che possiamo diventare.
Così nel nostro amore vediamo un riflesso dell’amore di Dio, come diceva San Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita in questa terra, aggiungendo una frase importante, e cioè che «per questo l’amore è caratterizzato da un profondo rispetto per tutti gli uomini, a prescindere dalla loro razza, dal loro credo o da qualunque cosa li renda diversi da noi».
Fratelli e sorelle, una parola importante per noi perché, al di là dello stupore che proviamo davanti alle opere fatte dall’uomo, ci ricorda che c’è una meraviglia ancora più grande, da abbracciare con ancora maggiore ammirazione e rispetto: e cioè i fratelli e le sorelle che incontriamo ogni giorno sul nostro cammino, senza preferenze e senza differenze, come ben testimoniano la società e la Chiesa singaporiane, etnicamente così varie e al tempo stesso così unite e solidali!
L’edificio più bello, il tesoro più prezioso, l’investimento più redditizio agli occhi di Dio chi è? Siamo noi, siamo noi: figli amati dello stesso Padre, chiamati a nostra volta a diffondere amore. Ce ne parlano in vari modi le letture di questa Santa Messa, che da diversi punti di vista descrivono la stessa realtà: la carità, che è delicata nel rispettare la vulnerabilità di chi è debole, provvidente nel conoscere e accompagnare chi è incerto nel cammino della vita, magnanima e benevola, nel perdonare oltre ogni calcolo e ogni misura.
L’amore che Dio ci dimostra, e che ci invita a praticare a nostra volta, è così: «risponde generosamente alle necessità dei poveri, è contrassegnato dalla pietà per coloro che soffrono, pronto a offrire ospitalità, fedele nei tempi difficili, sempre disposto a perdonare, a sperare», perdonare e sperare al punto di «ricambiare una bestemmia con una benedizione è il fulcro del Vangelo».
Lo possiamo vedere in tante figure di santi: uomini e donne conquistati dal Dio della misericordia, al punto da divenirne riflesso, eco, immagine vivente. E io ne vorrei, in conclusione, ricordare due, due figure. La prima è Maria, del cui Nome Santissimo oggi celebriamo la memoria. A quante persone hanno dato e danno speranza il suo sostegno e la sua presenza, su quante labbra è apparso e appare il suo Nome in momenti di gioia e di dolore! E questo perché in Lei, in Maria, noi vediamo l’amore del Padre manifestarsi in uno dei modi più belli e totali: quello della tenerezza, non dimentichiamo la tenerezza, la tenerezza di una mamma, che tutto comprende e perdona e che non ci abbandona mai. Per questo ci rivolgiamo a Lei!
Il secondo è un santo caro a questa terra, che qui ha trovato ospitalità tante volte durante i suoi viaggi missionari. Parlo di San Francesco Saverio, accolto in questa terra in molte occasioni, l’ultima il 21 luglio 1552. Di lui ci è rimasta una bellissima lettera indirizzata a Sant’Ignazio e ai primi compagni, in cui manifesta il suo desiderio di andare in tutte le università del suo tempo a «gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità», perché si sentano spinti a farsi missionari per amore dei fratelli, «dicendo dal profondo del loro cuore: “Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?”».
Potremmo anche noi fare nostre queste parole, sull’esempio suo e di Maria: “Signore, eccomi; che cosa vuoi che io faccia?”, perché ci accompagnino queste parole non solo in questi giorni, ma sempre, come impegno costante ad ascoltare e a rispondere prontamente agli inviti all’amore e alla giustizia che anche oggi continuano a venirci dall’infinita carità di Dio.