Prima ha varcato la Porta Santa della Basilica di San Pietro mescolandosi alle centinaia di dipendenti laici che lavorano nella Curia romana accompagnati da loro familiari. Poi nell’omelia ha auspicato «che anche nei nostri ambienti di lavoro possiamo sentire, coltivare e praticare un forte senso pastorale, anzitutto verso le persone che incontriamo tutti i giorni. Che nessuno si senta trascurato o maltrattato, ma ognuno possa sperimentare, prima di tutto qui, la cura premurosa del Buon Pastore». Papa Francesco ha scelto la data del 22 febbraio, festa liturgica della Cattedra di San Pietro, per celebrare il Giubileo della Curia romana alla quale, in passato, non ha risparmiato sferzate anche dure invitandola a fuggire le sirene del potere e della mondanità. «La festa liturgica della Cattedra di san Pietro», ha detto il Papa che ha celebrato la Messa all’altare della Cattedra, «ci vede raccolti per celebrare il Giubileo della Misericordia come comunità di servizio della Curia Romana, del Governatorato e delle Istituzioni collegate con la Santa Sede. Abbiamo attraversato la Porta Santa - ha quindi ricordato papa Francesco - e siamo giunti alla tomba dell'Apostolo Pietro per fare la nostra professione di fede».
Il Pontefice ha svolto la sua riflessione partendo dalla domanda che Gesù rivolge ai discepoli: “Voi, chi dite che io sia?”. «Una domanda», ha detto il Papa, «chiara e diretta, di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Ma in essa non c’è nulla di inquisitorio, anzi, è piena di amore! L’amore del nostro unico Maestro, che oggi ci chiama a rinnovare la fede in Lui, riconoscendolo quale Figlio di Dio e Signore della nostra vita. E il primo chiamato a rinnovare la sua professione di fede è il Successore di Pietro, che porta con sé la responsabilità di confermare i fratelli».
Il «modello» per i pastori, ha ricordato, è sempre «Dio stesso che si prende cura del suo gregge», che riconduce all'ovile la pecora smarrita, che pratica una «dedizione fedele, costante, incondizionata, perché a tutti i più deboli possa giungere la sua misericordia». Ha esortato a non dimenticare «che la profezia di Ezechiele (del pastore e della pecora smarrita, ndr) prende le mosse dalla constatazione delle mancanze dei pastori d'Israele».
Bergoglio ha quindi esortato a volgersi al “fondamento”, che è Cristo: «nessuno può porne uno diverso». Lui - ha proseguito il Pontefice - è la “pietra” su cui dobbiamo costruire. Lo ricorda con parole espressive sant'Agostino - ha ricordato papa Francesco - quando scrive che la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, «non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome. Non è la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo».
«Siamo chiamati», ha concluso Francesco, «ad essere i collaboratori di Dio in un’impresa così fondamentale e unica come quella di testimoniare con la nostra esistenza la forza della grazia che trasforma e la potenza dello Spirito che rinnova. Lasciamo che il Signore ci liberi da ogni tentazione che allontana dall’essenziale della nostra missione, e riscopriamo la bellezza di professare la fede nel Signore Gesù. La fedeltà al ministero bene si coniuga con la misericordia di cui vogliamo fare esperienza. Nella Sacra Scrittura, d’altronde, fedeltà e misericordia sono un binomio inseparabile. Dove c’è l’una, là si trova anche l’altra, e proprio nella loro reciprocità e complementarietà si può vedere la presenza stessa del Buon Pastore. La fedeltà che ci è richiesta è quella di agire secondo il cuore di Cristo. Come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Pietro, dobbiamo pascere il gregge con “animo generoso” e diventare un “modello” per tutti».
Prima di attraversare la Porta Santa, nell’Aula Paolo VI padre Marko Ivan
Rupnik, teologo gesuita, artista e direttore del Centro Aletti, ha tenuto una
meditazione alla presenza del Papa. «In
qualche modo, non la Curia Romana, ma ogni Curia»,
ha detto, «rischia
certamente la tentazione di acquisire un carattere un po’ para-statale,
para-imperiale, come nel passato. Ed è una tentazione tremenda: perché questo
mette nel cuore la funzione, la struttura, l’istituzione, l’individuo “che è in
funzione di”».
Sarebbe uno “scandalo”, ha detto il padre gesuita, «far vedere al mondo che viviamo il
Cristianesimo come una realtà individuale»:
la Chiesa, ha aggiunto, si contraddistingue per «un
modo di strutturarsi, di governare, di dirigere, di gestire» che è comunione, che è
inclusione. «Dietro una
Chiesa brava - ha osservato - non si incamminerà mai nessuno», ma ciò avverrà di fronte a
una “Chiesa bella”, che dentro i suoi gesti e le sue parole faccia «emergere un altro, il Figlio
e, ancor più, il Padre»
così l’uomo potrà diventare «luogo
della vita, come comunione e misericordia».