I lettori di Famiglia Cristiana conoscono
molto bene Claudio Marazzini, dal 1990
curatore della rubrica “Parlare e scrivere”.
Torinese, 64 anni, Marazzini è professore
ordinario di Storia della lingua
italiana e Linguistica italiana nella facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università
del Piemonte orientale. Dal maggio scorso
è anche presidente dell’Accademia della
Crusca.
Nata fra il 1582 e il 1583, l’Accademia
è uno dei principali punti di riferimento per
le ricerche sulla lingua italiana.
Lo incontriamo a Firenze nella bella villa
medicea sede dell’Accademia.
Professor Marazzini, a suo giudizio gli
italiani quanto sono insicuri sull’uso corretto
della lingua italiana?
«Ho l’impressione che l’insicurezza fosse
maggiore in passato. Però era positiva, non
dettata da ignoranza, ma da attenzione al
mezzo comunicativo. Gran parte dei dubbi
sulla lingua nascevano a scuola, c’era una dialettica
fra allievi e insegnanti e si cercava come
giudice la rubrica di Famiglia Cristiana.
Ora invece la scuola mi pare meno attenta a
precisi problemi di lingua. Mi scrivono soprattutto
gli anziani, che notano subito le
tendenze della lingua e i suoi cambiamenti».
E quali sono queste tendenze?
«La principale è la penetrazione dei forestierismi,
veri squadroni di parole accolti con
gioia e consenso da tutti i paladini di una certa
modernità. Certi prestiti dalle lingue straniere
possono essere necessari, altri sono lussi
inutili usati per esibizionismo».
Le leggi italiane sono scritte male?
«Lo dicono tutti che sono scritte male, a
noi della Crusca lo ha detto anche Napolitano
quando siamo andati a trovarlo. Ma le leggi
non sono scritte male soltanto per ignoranza.
Il loro cattivo italiano nasce anche dal fatto
che spesso sono testi di compromesso, che
vogliono salvare capra e cavoli, nati da spinte
e controspinte. Per fortuna, invece, la Costituzione
è un testo scritto bene».
Come parlano i politici italiani?
«Quando sono in auto, spesso ascolto alla
radio i dibattiti parlamentari e gioco a indovinare
l’appartenenza politica degli oratori dal
loro modo di parlare. Così riconosco il padano
rozzo dei leghisti oppure l’italiano con la
coesione testuale attenuata dei grillini diversa dalla premessa».
Si dice che il miglior italiano si parli a Firenze:
come giudica il linguaggio di Renzi,
ex sindaco della città?
«L’italiano è nato a Firenze, ma non tutto
il fiorentino è passato nell’italiano standard.
Certo, il possesso dell’italiano da parte dei
fiorentini è sempre entusiasmante. In un bar
qui vicino ho sentito la parola “nocchino”,
per indicare un piccolo buffetto. È una delizia
ascoltarli. Renzi parla un italiano marcatamente
toscano, ma non sempre. Come tutti i
toscani, il presidente del Consiglio ha certamente
delle doti di affabulazione notevoli e
lui ci aggiunge una grande capacità comunicativa,
lo si vede da come usa la Rete. Forse
non è un caso che a settembre la “Giornata
europea delle lingue”, di solito celebrata nella
capitale del Paese che guida il semestre europeo,
si farà proprio a Firenze».
Si scrive e si legge sempre meno su carta,
questo come ha cambiato la lingua?
«La lingua non cambia per questo. Secondo
i linguisti la lingua vera è quella parlata,
anche se non sono del tutto d’accordo. Direi
che gli strumenti informatici hanno cancellato
la profezia secondo cui non si scriveranno
più lettere, perché il telefono ucciderà la
scrittura. Siamo tutti vittime della ridondanza
comunicativa dei nostri tempi. Tra e-mail,
Sms e Twitter oggi c’è un trionfo della scrittura
veloce e informale. Io tremo quando rileggo
certi messaggi che partono dal mio telefono,
però è normale che sia così, perché quello
che conta, in questo caso, è la velocità».
Ma lei per fare in fretta scriverebbe “ke”
invece di “che”?
«L’uso della k è una scelta grafica. Il primo
documento in italiano comincia con la
frase “sao ko kelle terre...”. I giovani hanno
trovato da soli una soluzione già usata dagli
scrivani del Medioevo, poi l’italiano non l’ha
accettata. Ma oggi nella scrittura veloce di un
Sms mi sembra accettabile. L’importante è sapere
che esistono altri livelli di scrittura».
Ha notato che oggi va di moda rispondere
“sì” o “no” aggiungendo “assolutamente”?
«Certo. Il problema è quando alla domanda
si risponde solo con il rafforzativo “assolutamente”
e uno non capisce se è un sì o un
no. Questi sono tic la cui fortuna non si sa
quanto può durare. L’uso di “attimino” è quasi
scomparso, però sta prendendo piede l’uso
di “piuttosto che” al posto di “o”, uno snobismo
che serve solo a complicare le cose».
Noi giornalisti facciamo molto male alla
lingua italiana?
«Voi di Famiglia Cristiana direi proprio di
no. Siete l’unico giornale che usa sé stesso
con l’accento. È un segno di attenzione massima
alla norma, che fa discutere moltissimo i
vostri lettori».