«Quando studenti, scout e giovani delle parrocchie vengono a conoscere la storia di don Peppe, li portiamo sul terrazzo, dove è riportato l’invito di don Diana “Risaliamo sui tetti e riannunciamo parole di vita” e chiediamo loro di pensare se vogliono far proprio questo impegno. Visitare le Terre di don Diana è come un esercizio, ha senso se poi quanto imparato si mette in pratica a casa». Valerio Taglione, 51 anni, è il presidente del Comitato don Diana, l’organizzazione nata per portare avanti il messaggio del sacerdote ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994. Lo incontriamo a Casa don Diana, il bene confiscato alla criminalità organizzata che il Comitato ha trasformato in centro per la promozione sociale per gli abitanti di Casal di Principe e per le migliaia di visitatori (150 mila dal 2009) che qui giungono ogni anno. Un luogo in cui si fa cultura, formazione, innovazione e memoria.
Alle pareti sono appese le foto di don Diana e delle tante altre vittime uccise dalla camorra. Poi ci sono la camicia dell’uniforme scout appartenuta a don Peppe, il suo zaino e alcuni appunti e riflessioni per le attività con i ragazzi. Inoltre un’esposizione fotografica racconta le storie di chi l’impegno per la legalità lo sta portando avanti oggi. Perché per chi passa per Casa don Diana, la memoria si trasformi in azione. «Al suo funerale piangemmo, certo. Ma subito ci rendemmo conto che fare memoria non sarebbe stato sufficiente, servivano luoghi dove poter sperimentare quanto seminato da don Peppe, così decidemmo di dar vita alle “Terre di don Diana”: terre di relazioni e non di solitudine, di legalità e non di criminalità», dice ancora Taglione, che con don Diana ha condiviso lunghi anni di scoutismo. «Don Peppe? Era gioioso, gli piaceva stare in compagnia e sapeva giocare ma ci invitava anche a riflettere in maniera seria. Mi piaceva la sua schiettezza, la sua semplicità, ma anche la sua veridicità. Con lui si discuteva sui temi che riguardavano il nostro territorio, come la camorra, e su quale potesse essere il nostro impegno».
Don Diana era un leader, un prete esigente e un uomo dal carattere sopra le righe, quasi sbruffone. «Non era il sacerdote classico, e proprio per questi tratti del suo carattere non tutti lo amavano. Eppure ricordo con gratitudine quanto fosse capace di dare fiducia a noi ragazzi», dice ancora Taglione.
Oggi sono più di 50 le organizzazioni che fanno parte del Comitato don Diana: «Noi diciamo che l’errore più grande la camorra l’ha fatto il 19 marzo 1994, perché nel momento in cui uccisero Peppe si scatenò un meccanismo di ribellione. Attorno alla sua figura abbiamo creato senso di appartenenza: bisogna sentirsi in tanti per riuscire a cambiare le cose». Dal 1994 in avanti, quello del Comitato don Diana è stato un cammino lungo e complesso. «Su don Peppe è stato detto di tutto: i primi anni in particolare, quando si cercava di ricoprire la sua immagine con il fango, sono stati duri. Ma anche oggi non si può abbassare la guardia: la camorra che conoscevamo qualche decennio fa è stata in gran parte sconfitta, ma la criminalità organizzata, non la sua mentalità e i suoi poteri, non è stata debellata, ha cambiato modo di agire», chiude Taglione. «Per questo mostrando ai ragazzi lo zaino che appartenne a Peppe, diciamo che le loro scelte dipenderanno dal peso delle loro esperienze: se lo zaino è pesante, sceglieranno per il bene della comunità; se è leggero, per il solo bene personale. Tocca a ciascuno decidere cosa fare».