Monsignor Vincenzo Bertolone
La gioia di oggi ripaga gli anni, tanti, di attesa, ricerche,
prove, testimonianze. Palermo e la Sicilia attendono con trepidazione il
25 maggio, giorno in cui don Pino Puglisi sarà proclamato beato. Monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo della diocesi di Catanzaro-Squillace, è il postulatore.
– Cosa ha sbloccato la causa? Cosa s’intende con la definizione martire in odium fidei?
«Ho assunto l’incarico nell’agosto 2010, con l’obiettivo di rispondere
ad alcuni quesiti sollevati dalla Congregazione delle cause dei santi il
12 dicembre 2006. In particolare si chiedeva se don Puglisi fosse stato
ucciso per l’esercizio del ministero sacerdotale o per altre ragioni.
Nuove testimonianze, l’accesso a documenti inediti e il contributo di
molti studiosi hanno consentito di far luce sui dubbi esternati: Puglisi
fu ucciso perché, col suo essere prete, semplicemente prete, proponeva
non una sfida, ma la costruzione di un’alternativa civile e cristiana,
che svuotava dall’interno il potere mafioso. Il suo omicidio, fu
acclarato, era stato un atto contro la fede che egli professava e i
mandanti erano perfettamente consapevoli di colpire un sacerdote che
esercitava il ministero sacerdotale “predicando…tutta a iurnata”».
– Pensa che il delitto Puglisi faccia giustizia, una volta per
tutte, dei giudizi benevoli sulla mafia, circolati troppo a lungo in
Sicilia,anche all’interno della Chiesa?
«Quella morte, così tragica e dolorosa, è un seme insuperabile
di vitalità. È la sfida del futuro della Chiesa siciliana e non solo: la
morte di don Puglisi si pone come luminoso esempio di vita sacerdotale.
Il suo sangue innocente è stato e dev’essere come una trasfusione nelle
coscienze indifferenti, richiamando tutti a un nuovo approccio con il
fenomeno mafioso e, quindi, a una decisa ricerca degli strumenti
ecclesiali e pastorali più idonei a formare coscienze veramente
cristiane (confraternite, comitati per le feste, consigli pastorali e
affari economici) che operino evangelicamente: dopo Puglisi nulla può
essere più come prima nella valutazione storica e sociologica del
fenomeno mafioso dentro e fuori la Chiesa».
– Cosa cambia nella pastorale delle comunità ecclesiali con la testimonianza di don Pino?
«Già in precedenza non erano mancati pronunciamenti della Chiesa
siciliana. Ricordo ad esempio, nel 1981, le parole di monsignor
Bommarito, vescovo di Agrigento, zona ad alta densità mafiosa: “Il
Vangelo è l’unico antidoto alla mafia. La polizia, il confino, il
soggiorno obbligato sono misure che danno dei colpetti a questa
organizzazione, ma l’unico antidoto è la convinzione profonda che
l’amore salva l’uomo”. Poi l’azione pastorale del cardinale Pappalardo
che con ammirevole e solenne fermezza aveva richiamato ripetutamente le
coscienze al pentimento, alla conversione, al ritorno a Dio e al vivere
da onesti cittadini».
– Con il riconoscimento del martirio di don Pino Puglisi la svolta è irreversibile...
«È la chiave di volta. La verità squarcia il velo dell’ipocrisia: non
esistono mafiosi buoni e mafiosi cattivi, ma un cancro da combattere
civilmente ed ecclesialmente con la Parola,l’esempio, la testimonianza.
Preti che umilmente, ma con fede certa si facciano compagni di viaggio
degli uomini,col Vangelo in mano e nel cuore.Proprio come don Puglisi,
che è annoverabile tra i profeti. La sua testimonianza, infatti, non dà
quiete ed è coraggiosa, ferma, intransigente. Non accetta baratti né
compromessi. Puglisi ha detto e fatto contro la mafia parole e azioni
pesanti da imitare, proponendosi quale esempio di una vita più degna
d’essere vissuta. La sua morte ci sprona a essere cristiani con la testa
alta e la schiena dritta».