Il più alto riconoscimento dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, è stato assegnato a una rete di attiviste colombiane che rischiano la vita per aiutare donne sopravvissute a migrazioni forzate e abusi sessuali. Si chiamano Red Mariposas de Alas Nuevas Construyendo Futuro (Farfalle con Nuove Ali per Costruire il Futuro) e hanno sede nella città costiera di Buenaventura, sul Pacifico. Il 29 settembre a Ginevra ritireranno i 100 mila dollari associati al premio intitolato a Fridtjof Nansen, l’esploratore norvegese che fu il primo Alto Commissario per i rifugiati della Società delle Nazioni, l’antenata dell’Onu.
La scelta di un gruppo colombiano non è casuale: nel mondo, la Colombia è seconda solo alla Siria come numero di sfollati interni (5,4 milioni, l’11-12% della popolazione) a causa del conflitto che dura da cinque decenni tra militari, paramilitari, gruppi di ribelli e bande legate al narcotraffico. In nessuna zona del paese la devastazione è così evidente come nel porto industriale di Buenaventura, segnato dalle rivalità tra gruppi armati illegali.
«Usano i nostri corpi per marcare il controllo del territorio. È un modo per mostrare che hanno il potere e instillare la paura dentro di noi», racconta Luz Dary. Lei è una delle oltre mille donne aiutate dalle Mariposas in questi anni; tutte volontarie con risorse modeste, svolgono il loro lavoro a piedi, in autobus o in bicicletta. Cercando di essere più caute possibili, girano i quartieri più pericolosi per aiutare le donne ad avere accesso alle cure mediche e a denunciare i crimini. È questo lavoro nel cuore delle comunità che consente loro di raggiungere le donne più vulnerabili, ma che al contempo le espone a rischi e minacce. «Il loro coraggio va oltre le parole», commenta il Commissario per i Rifugiati António Guterres.
Le bande criminali commettono violenze su donne e bambini a scopo intimidatorio e dimostrativo; spesso torturano, stuprano o uccidono per vendicarsi. La vita di Luz è cambiata in un solo giorno del 2004. Era arrivata a Buenaventura nove anni prima con i quattro figli, dopo che una sera il suo villaggio di Choco, in piena foresta pluviale, era stato bruciato dai ribelli. Le erano rimasti solo i vestiti che indossava ma, vendendo polli nel quartiere afrocolombiano del porto, era riuscita a costruire una baracca e ricominciare una vita. Addirittura, era diventata un leader della comunità locale con il gruppo “Madri per la vita”, successivamente federatosi alle Mariposas. Fino a quel giorno del 2004 in cui quattro paramilitari bussarono alla sua porta: «Afferrarono», racconta la donna mentre le lacrime scorrono sulle sue guance, «una delle mie figlie, di 10 anni. Volevano violentarla, dissi loro di fare quello che volevano a me ma di non toccarla. Presero la mia dignità uno alla volta, ero così impotente». Le ordinarono di andarsene perché – dicevano – il suo lavoro «stava svegliando troppo le persone della comunità». Scappò a Bogotà, decidendo di tornare a Buenaventura solo molti anni dopo: «Da sfollata», racconta ora scuotendo la testa, «puoi ricostruire la tua vita ma, nel caso di uno stupro, non dimenticherai mai quello che è successo. Dopo la violenza, ho perso anche mio marito, che se ne è andato. E mi ha lasciato anche il sorriso».
Per sei anni Luz è rimasta in silenzio per paura di rappresaglie e per lo stigma che circonda la violenza sessuale. Ma ora, dopo essere entrata nelle Mariposas, ha iniziato a parlare: «Ho trovato il coraggio; quando racconto l’ingiustizia subita, è come buttar fuori un cancro che mi sta consumando».
Fondamentale è stato aver frequentato dozzine di incontri sui diritti: qui le donne si riuniscono e rendendosi conto di non essere sole nella sofferenza, lentamente riacquistano autostima e forza. Attraverso la rete, costruiscono il principio del “comadreo”, che ha un significato speciale nella cultura afrocolombiana in quanto unisce rispetto, fiducia, solidarietà e riservatezza.