Conteggio delle banconote in banca (Reuters).
Mesi di telefonate insistenti a casa, sul lavoro, persino sul telefono del fratello e a casa dell’anziana nonna. Da una parte del telefono una persona che chiede di ripagare un debito, che cerca informazioni, dall’altra familiari (ma persino il datore di lavoro) che vogliono spiegazioni, per capire cosa sta succedendo, quali difficoltà economiche ci sono e per quali motivi. Una violazione della privacy che ha messo sotto scacco un’intera famiglia, ma che il giudice ha riconosciuto condannando la Banca Santander a pagare 10 mila euro di danni a un suo cliente.
Una sentenza quasi unica quella emessa dal Tribunale di Chieti nel 2012, al quale si era rivolto un uomo sfinito dalle chiamate di una presunta “avvocatessa” che, senza mai rivelare il suo vero nome e senza mai citare la società per cui lavorava, mirava al recupero crediti. A distanza di un anno il signor Luciano (il nome è di fantasia) continua a trincerarsi dietro il silenzio, ancora scosso da questa pressione continua che ha messo in difficoltà anche i suoi rapporti familiari e lo ha costretto a dare spiegazioni, su fatti privati, al proprio datore di lavoro.
A raccontare come sono andati i fatti è il suo avvocato, Vanessa Serra: «Al momento di firmare un contratto di finanziamento con la sua banca, per un prestito di 25 mila euro, il signor Luciano ha firmato anche il consenso al trattamento dei suoi dati personali e alla possibilità cederli a “terzi”, ovvero a società di recupero crediti. La banca ha però il dovere di informare l’interessato a chi dà queste informazioni, mentre si sono succedute ben tre società diverse e nessuno ha mai dato spiegazioni. Sono stati mesi di telefonate continue, sms sul cellulare, toni minacciosi. Un incubo».
Una mancanza di comunicazione da parte della banca che ha pesato molto sulla decisione del giudice che, come si legge nella sentenza, ha ritenuto responsabile di violazione dei dati personali anche la società di recupero crediti Transcom. Ad aggravare una situazione già non semplice c’è anche il “mistero” di come la banca e la società di recupero crediti siano venuti a conoscenza anche del numero dell’ufficio, di casa del fratello, della nonna e di altri familiari che risiedono in una città diversa.
L’accusa è chiara: lesione alla riservatezza. La sentenza di primo grado è passata in giudicato perché banca e società condannate hanno rinunciato ad andare in appello. Ma a non passare è quella sensazione di essere “ricercato”, lo scricchiolare dei rapporti di fiducia sul posto di lavoro, la frustrazione per doversi giustificare anche con la nonna che chiede rassicurazioni, la violazione della propria sfera privata.
Una situazione abbastanza comune, anche se in pochi si rivolgono a un giudice: «Purtroppo non è un caso isolato, spesso siamo davanti a un vero e proprio terrorismo psicologico, con condotte che sono vietate dal garante della privacy – spiega l’avvocato Serra -. Spesso in queste situazioni i clienti, non sapendo più cosa fare, pur di mettere fine a questo tormento aprono altri finanziamenti per ripagare il debito, entrando in un vortice».