Non è la storia di una sconfitta, anche se Roberto
Mancini, il funzionario
di polizia che per primo
indagò sulla Terra dei
fuochi, non ce l’ha fatta
a vincere il tumore che,
proprio per quei veleni,
gli si era insinuato nel corpo e che lo
ha portato alla morte nel 2014.
«Una storia che mi ha commosso,
perché ho visto l’impegno di un autentico
servitore dello Stato, e che mi
ha anche fatto arrabbiare per i silenzi,
le ingiustizie, gli ostacoli al suo lavoro.
Ma, alla fine, vorrei che il pubblico
capisse che il sacrificio di quest’uomo
non è stato totalmente vano. Sia
perché in gran parte grazie alla sua
tenacia la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha scoperto le migliaia
di tonnellate di rifiuti tossici sversati
in quelle terre, sia perché la figura di
Roberto può essere d’esempio a tante
persone, a tanti giovani».
A parlare è Beppe Fiorello che
impersona il poliziotto Marco Giordano
(liberamente ispirato alla figura
di Roberto Mancini), il protagonista
della miniserie in due puntate che Rai
1 manderà in onda il 15 e 16 febbraio.
Io non mi arrendo, per la regia di Enzo
Monteleone, è la storia di un uomo, ma
anche un film di impegno civile.
Fiorello, cosa ci dice di più questa
miniserie rispetto a quello che già si
sa della Terra dei fuochi?
«Sembrerebbe unfi lm paradossalmente
anacronistico, perché la storia
la conosciamo tutti, ma non conoscevamo
la vita di questa persona che
avrebbe potuto evitare tutto questo o
quanto meno renderlo molto meno
disastroso, circoscriverlo. E che invece
è stato ostacolato nel suo lavoro.
Questa è l’importanza di questo film:
il mettere sull’Olimpo dei grandi uomini
di questo Paese anche Roberto
Mancini. Lo metterei con Borsellino
e Falcone, Pippo Fava e Beppe Alfano,
Peppino Impastato e Salvo D’Acquisto.
Insieme con tutti quei giornalisti, uomini
dello Stato, poliziotti, carabinieri,
e tanti eroi della società civile e delle
istituzioni che volevano il bene di
questo Paese, il bene del nostro futuro
e dei nostri figli».
È una storia che già conosceva
quella di Roberto Mancini?
«No. E non ne vado assolutamente
fiero, ma sono certo che molti come
me non conoscevano né la figura di
questo ispettore di polizia, né tantomeno
quello che voleva fare e che
stava facendo. Questo non sapere
niente mi colpì dopo, quando ho capito
che non era un mio difetto, ma dipendeva
dal fatto che questa vicenda
è stata volutamente nascosta perché
era scomoda. Roberto Mancini aveva
scoperto, partendo da un’indagine per
usura, tutta la “sporcizia” che si stava
mettendo sotto il tappeto. Le sue indagini
sono state rallentate e ostacolate
perché davano fastidio a certi sistemi
del malaffare e a qualche parte marcia
della politica».
Come si è preparato a interpretare
un personaggio così significativo?
«Studiando molto, ascoltando
gran parte della squadra che lavorava
con lui, chiedendo aiuto anche alla
moglie Monica. E studiando mi sono
reso conto della scellerata follia di tutto
quello che è stato fatto nella Terra
dei fuochi, ma un po’ in tutta Italia. Allora
ho deciso di mettere in mezzo tutto
me stesso, come uomo della società
civile, per dire che anche la società civile
probabilmente qualcosa capiva e
vedeva, ma non ha fatto nulla o troppo
poco. Non c’erano fantasmi, ma decine
di tir che circolavano anche dentro
i centri abitati dei piccoli paesi e che
poi andavano a interrare i rifiuti tossici.
Possibile che nessuno abbia visto
e fatto nulla? Ci si è mossi soltanto
quando sono cominciate le conseguenze
fisiche, i linfomi ai bambini,
le morti. Ma prima? Purtroppo siamo
sempre lì, in Italia le mafie continuano
a nutrirsi di omertà».
Come si è trovato nei panni di
Marco/Roberto?
«Per me è stato un immedesimarmi
anche fisico nel personaggio.
Abbiamo girato prima le parti in cui
il protagonista era sano e poi la parte
della malattia. Rasato, glabro, dimagrito,
ho sperimentato davvero – sia pure
nella finzione scenica – cosa significa
essere fisicamente trasformati dalla
malattia. E quando sua moglie Monica,
guardandomi dal monitor e poi negli
occhi, proprio nelle scene in cui si
vede la malattia, mi ha fatto la battuta
“quasi quasi mi ri-innamoro”, ho capito
che avevo raggiunto, anche grazie ai
suoi consigli, un buon grado di credibilità.
Questa battuta mi ha gratificato
professionalmente ed emozionato
umanamente».