Pura ideologia nazionalista chiusa nel passato, orgogliosa della propria grandezza, incurante del resto del mondo. Cecità di fronte ai fortissimi e lucrosi vantaggi economici garantiti alla Gran Bretagna da anni dal mercato economico europeo, il piú importante del mondo.
La storia della Brexit, l’uscita delle isole britanniche dalla Ue, è tutta qui. L’identitá isolana di un impero che non è piú ma non riesce ad accettarlo. Un problema, a dire la veritá, sentito soltanto di una minoranza elitaria conservatrice, diciamo Tory giusto per intenderci, pur ricca e influente. Eppure l’ideologia “Brexiteer” ha travolto il Paese quattro anni fa, al momento del referendum del 23 giugno 2016, convincendo una risicata maggioranza del 52 per cento che abbandonare l’Europa avrebbe restituito un glorioso passato. Dio salvi la regina e affossi l’Europa.
E adesso, col trattato appena firmato dal premier Boris Johnson e dalla presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, il Regno Unito recupera quella sovranitá tanto celebrata e accetta di impoverirsi, irrimediabilmente, dimostrando al resto del mondo che si puó anche pagare il prezzo di auto danneggiarsi, se lo si vuole veramente.
Perché i conti parlano chiaro.
Se, per colpa del Covid, l’economia britannica ha perso il 20,4 per cento in aprile – la contrazione mensile piú grave mai registrata, dieci volte peggio rispetto alla crisi del 2008 e quattro volte peggio rispetto alla Grande Depressione del 1931 - Brexit presenterá un conto di 223 miliardi di euro entro la fine di quest’anno. Una cifra che fa impallidire i 240 miliardi di euro complessivi che il Regno Unito ha pagato all’Unione europea nei 47 anni nei quali e’ stato uno dei suoi più importanti Stati membri. Cifra, quest’ultima, tanto sventolata dai fanatici della Brexit come una delle voci in attivo piú importanti dell’uscita dalla Ue.
Con il nuovo trattato la contrazione dell’economia britannica sará del 5% anziché dell’8%, questo sarebbe stato il costo del “no deal”, cioè della rottura netta con la Ue.
Se è vero che Johnson è riuscito a salvare il mercato di import ed export, garantendo zero tariffe e nessuna quota - anche se soltanto ai prodotti rigorosamente “Made in Britain” - è altrettanto vero che i servizi con la City, che rappresentano l’80% dell’economia britannica, sono rimasti esclusi dal nuovo patto commerciale.
La politica gioca brutti scherzi, si sa. In teoria David Cameron, Theresa May e persino Nigel Farage, l’inventore di Brexit col suo partito “Ukip” nel 1993, per non parlare di Boris Johnson, avrebbero dovuto curare il bene comune dei sudditi di Sua Maestà. Esiste, anche dentro il partito conservatore, il concetto di “One Nation Conservatism” vedi Disraeli nel 1800. L’idea che i ricchi hanno un dovere nei confronti dei piú poveri e della societá in generale, assicurarsi una giusta distribuzione del reddito che non escluda nessuno, ciò che ha reso il “Partito Conservatore” quello piú a lungo al potere nel Regno Unito.
In pratica i politici hanno un problema di sopravvivenza, farsi eleggere. Cameron non poteva permettersi di perdere voti a favore di Farage e ha fatto male i conti. Ha giocato a poker con il mercato europeo perché voleva salvare i Tories e ha perso.
Theresa May era europeista e non voleva svendere gli interessi dei suoi concittadini. Il suo accordo, piú farraginoso rispetto a quello di Johnson, ma piú vantaggioso, è rimasto impantanato in Parlamento dove le divisioni sull’Europa hanno bloccato tutto. Boris Johnson invece è un pragmatico interessato soltanto a promuovere se stesso. E questo rende le cose molto più semplici.
“Bojo” ha barato durante il referendum del 23 giugno 2016 presentando un Regno Unito sommerso da migranti. Un Regno Unito che doveva abbandonare la perfida Ue in quanto lo costringeva a buttare via «banane sformate».
Ha poi barato sul Nord Irlanda, concedendo alla Commissione europea che quel pezzetto di terra irlandese rimanesse nel mercato unico e sbloccando, cosí, le trattative. Per poi rimangiarsi tutto, violando un trattato internazionale.
Soprattutto sta barando adesso, con questo nuovo trattato, che manda in pensione, di colpo, tutta la sua retorica fanfarona. Quel «Get Brexit done», smettiamola finalmente con Brexit, con cui ha vinto le elezioni un anno fa. Promettendo, in patria, infinite volte, al Parlamento di Westminster e alla nazione, che «la Gran Bretagna era pronta al “no deal”», ad andarsene sbattendo la porta.
Funzionerá il suo bluff? Il dilemma di un’ Europa che divide a metá il Regno, che fa finire la carriera politica di leader come Margaret Thatcher e John Major, si ripropone intatto anche dopo questo nuovo accordo.
Ricomincia da oggi la battaglia dei “Brexiteers” fanatici dello “European Research Group”, dei Faragisti, che comandano tra i Tory, in rivolta sulla gestione di Johnson della pandemia, e che hanno giá cominciato a dire che il premier ha svenduto gli interessi britannici. Cedendo su quei diritti di pesca che rappresentano soltano lo 0,1% del Pil britannico ma sono il simbolo piú potente del nazionalismo. Come resistere alla tentazione di dire che le acque britanniche sono per i pescherecci del Regno Unito? Negando la realtá che oltre il 70% del contenuto delle reti di dodicimila pescatori britannici viene venduto in Europa.
Si dice che a Bruxelles le ultime ore di questo trattato siano trascorse contando ogni maccarello e merluzzo e ogni peschereccio con una pragmatica pignoleria, cosi tipica della mentalitá inglese.
Ce la fará il premier a far approvare a Westminster il nuovo accordo commerciale con la Ue? A superare lo scoglio sul quale si e’ schiantata Theresa May?
Probabilmente lo farà con la furbizia con la quale è riuscito ad assicurarsi dalla Ue duemila pagine di dettagli tecnici alla vigilia di Natale, assicurandosi che nessuno avrá il tempo e la voglia di leggerle.
In fondo ha ceduto su tanti terreni. I servizi, per esempio, che contano per l’80% dell’economia britannica, sono stati esclusi dall’accordo. Nessun vincolo. Riaccendendo il sogno dei fanatici pro Brexit del libero mercato di un Regno Unito trasformato in un porto franco, in una Singapore alle porte d’Europa. Per non parlare del sistema australiano di immigrazione a punti che renderá impossibile per gli italiani arrivare a lavorare nei caffè e bar di Londra come capitava fino a oggi. A sbarcare qui saranno soltanto lavoratori qualificati giá destinati a un preciso posto di lavoro, con una buona conoscenza della lingua, equiparati a stranieri dal resto del mondo. Per non parlare dei corsi universitari che costeranno tre volte tanto per gli studenti in arrivo dalla Ue, dell’obbligo di pagare per il servizio sanitario e delle patenti non equiparate.
È tutto da vedere se i fanatici della Brexit digeriranno i controlli alla dogana tra nord Irlanda e Regno Unito che Boris Johnson ha messo, poi tolto, poi rimesso.
La battaglia sulla Brexit ricomincia da oggi e puó essere definita la maledizione o anche la faida del Regno Unito del ventesimo secolo. Quel sogno di sovranitá che chiuderá il Paese in un isolamento orgoglioso e nostalgico e poverissimo, presentando un conto sempre piú salato.
Duecentosettanta milioni di moduli in piú da compilare rispetto ai cinquantacinque milioni di oggi peggioreranno ancora le code che giá bloccano i porti sulla Manica, a cominciare da Dover, e ci vorrá una squadra di altri cinquantamila agenti della dogana a controllare che cosa succede alle frontiere.