Le ruote in ferro del trattore
di Fabrizio Rizzotti affondano
i fendenti nelle risaie
colme d’acqua di Cascina
Fornace, a Vespolate, nel
Novarese. Si ferma e abbozza
un sorriso: «Va bene così
per la foto?». Non sembra,
ma questo risicoltore nel cuore del
“triangolo d’oro” italiano del riso, tra
Novara, Vercelli e Pavia, ha molto in comune con i contadini di Bocozelle,
nella Valle dell’Artibonite, ad
Haiti, il Paese devastato dal terremoto
del 2010 che ha provocato oltre 220
mila vittime e danni per 14 miliardi
di dollari. Come loro lotta contro le
disuguaglianze alimentari della globalizzazione,
croce e delizia dell’Expo
che si celebra a pochi chilometri da
questa cascina dove Fabrizio, 56 anni,
insieme al glio Luca, 26, coltiva il
riso da sette generazioni.
Ora Rizzotti, che dal 1998 ha deciso
di trasformare e vendere a km
zero il suo riso, deve lottare contro
Bruxelles che ha deciso di far entrare
in Europa il riso asiatico a costi troppo
bassi, facendo una concorrenza micidiale
ai produttori italiani. «Soprattutto
a quelli piccoli come me», spiega,
«che fanno un prodotto di qualità ma
che sul mercato non sta su».
Le importazioni “incriminate” arrivano
da Cambogia e Myanmar, favorite
dall’azzeramento dei dazi doganali
decretato nel 2011 con l’Everything
but Arms, un piano europeo di solidarietà
con cui si sono liberalizzate
le importazioni di prodotti dai Paesi
meno sviluppati. «Se oltre a produrlo,
si vende anche il riso al consumatore
il guadagno è quattro volte superiore»,
spiega Rizzotti, che all’anno produce
2.500 quintali. «Non diventi ricco ma
vivi dignitosamente», chiosa.
Per la campagna “Abbiamo riso
per una cosa seria. La fame si vince in
famiglia” la Focsiv ha scelto proprio
Rizzotti come testimonial. Perché
rappresenta il connubio tra tradizione
familiare e agricoltura sostenibile.
«Per la concimazione utilizziamo il
compost, un mix di sostanze organiche
biocompatibili», afferma. «Per la
tostatura mi sono offerto di fare da
cavia a un gruppo di giovani ingegneri
novaresi che hanno creato una caldaia
alimentata solo con prodotti naturali.
E Haiti che c’entra? Qui la produzione risicola, unico puntello di un
Paese poverissimo, è stata asfaltata da
calamità naturali e dalla concorrenza
del riso statunitense, favorita da una
spregiudicata politica doganale prima
del Fondo monetario internazionale
nel 1986 e poi dal presidente Bill Clinton
che nel ’94 favorì il ritorno dell’allora
presidente Aristide e questi in
cambio fu costretto ad abbassare i dazi
doganali sul riso dal 22 al 3 per cento.
«Fino agli anni ’80 la produzione di
riso e caffè nel Paese era buona e Haiti
riusciva anche a esportare», spiega
Marco Bello, capo progetto dell’associazione
torinese Cisv sul riso sostenibile,
«poi è crollato tutto: la gente ha
abbandonato in massa le campagne,
molti sono emigrati nella Repubblica
Dominicana».
Il riso americano
costa molto meno di quello locale
e le famiglie haitiane ovviamente
scelgono quello low cost. Nella Valle
dell’Artibonite, 120 chilometri a nord
della capitale Port-au-Prince, il progetto
Cisv, nanziato dalla Caritas, sta
tentando di migliorare la produzione
e la commercializzazione del riso.
«È una goccia nell’oceano ma è
un primo passo», spiega Bello. «Oggi
soltanto il 18 per cento del riso consumato
ad Haiti arriva dai coltivatori
locali». I primi segnali sono buoni: «A
Bocozelle, mettendo insieme oltre 50
organizzazioni contadine», fa sapere
Bello, «in pochi mesi siamo riusciti a
raddoppiare la produzione di riso, passando
da una resa di 2,5 tonnellate per
ettaro a cinque».
A Cascina Fornace Luca Rizzotti,
il figlio di Fabrizio, si sta facendo le ossa
per prendere il testimone e traghettare
la sua azienda nella settima generazione.
«È una cosa che mi piace da
matti», sorride con l’aria di uno che si
è appassionato a una storia plurisecolare.
Anche se il futuro rimane un’incognita.
A Vespolate, però, un po’ meno
che ad Haiti.