I libri di Abraham Yehoshua suscitano sempre una doppia attesa. La prima è squisitamente letteraria: con quale storia ci delizierà questa volta l’autore israeliano, fra i più grandi al mondo, amatissimo in Italia? La seconda è più “politica”: che cosa avrà da dire sulla questione delle questioni: il rapporto fra Israele e Palestina? Fuoco amico, il nuovo romanzo che Einaudi manda in libreria in questi giorni, non si sottrae alla doppia attesa. È un “duetto” – questo il sottotitolo dell’opera – fra Amotz e Daniela, sposi non più giovani ma ancora affiatatissimi, che vivono una settimana di separazione: mentre lei si reca in Africa dal cognato per rendere onore alla sorella, da poco defunta, lui resta a Tel Aviv. E sarà una settimana intensa per entrambi, perché, se Amotz avrà a che fare con i problemi quotidiani della famiglia, a cui si aggiungono quelli provocati dai venti che si sono insinuati in un grattacielo da lui appena progettato e che provocano sibili tanto misteriosi quanto angoscianti, Daniela scoprirà che il cognato Yirmiyahu si è ritirato in volontario esilio da Israele. Tutti i personaggi, indistintamente, sono accomunati da un lutto non elaborato...
– Il romanzo si apre con la dedica: “Alla famiglia, con amore”. Sembra che con Fuoco amico lei abbia voluto celebrare la famiglia, renderle omaggio...
«È così. La famiglia è il punto di partenza da cui ho sempre guardato il mondo. In particolare, per me è centrale la relazione fra moglie e marito: è la più profonda, difficile e rischiosa, nel senso che non ci si può mai sentire al sicuro una volta per tutte, bisogna sempre impegnarsi per tenerla viva. Le relazioni fra padre e figlio o fra fratelli sono diverse, in quanto naturali e biologiche. Non dobbiamo dimenticare che la coppia è formata da due estranei che si uniscono nel modo più profondo, condividendo sia gli aspetti più banali della vita, sia le decisioni morali sulle questioni essenziali».
– Oggi però si dice che la famiglia è in crisi, che è superata, fuori moda...
«Tutto cambia e tutto è sottoposto a critiche, ma, secondo me, l’idea di famiglia è e sarà sempre forte. Se osserviamo gli animali, d’altra parte, notiamo come l’attrazione fra maschio e femmina proviene dal profondo dell’essere».
– La sua attenzione per le dinamiche della coppia e della famiglia – comune a tanti scrittori israeliani – deriva dalla tradizione biblica?
«Nella storia degli ebrei, segnata dall’ostilità, la famiglia è diventata il luogo protettivo e caldo nel quale l’individuo trova sicurezza. Forse da noi ha assunto maggiore importanza che altrove come reazione alle insidie del mondo esterno. Una volta cresciuti, terminata la scuola superiore, i nostri figli sono costretti a entrare nell’esercito per un lungo periodo e continuano ad aver bisogno delle cure familiari. Di conseguenza, la relazione diventa più intensa. Negli altri Paesi, finita la scuola il giovane si sente finalmente libero di uscire di casa e rendersi indipendente».
– Lei si è divertito a disseminare Fuoco amico di metafore e simboli. Ad esempio, i venti che si insinuano nelle fessure del grattacielo...
«Sono gli spiriti delle vittime dell’intifada, le anime degli innocenti che non trovano pace. In Africa Daniela viene accolta da una ragazza sudanese, che è animista. Metaforicamente, tutti questi spiriti si trasferiscono negli ascensori del grattacielo a Tel Aviv... In tal modo, Africa e Israele risultano connessi nonostante la distanza, come Amotz e Daniela».
– E che dire dell’elefante dall’occhio ciclopico che Yirmiyahu fa vedere a Daniela?
«Questo difetto genetico si riflette nella disperazione di Yirmiyahu, il quale vuole cancellare la sua identità, non appartenere più a nulla, liberarsi dal destino di sofferenza del popolo ebraico, perderne la memoria... L’elefante con quell’occhio abnorme diventa simbolo del suo desiderio di un mutamento quasi genetico».
– Yirmiyahu, forse il personaggio più interessante, ha perso il figlio in un’esercitazione militare. Un altro personaggio lo ha perso in guerra... Il lutto che ha colpito il collega e amico David Grossman, l’ha influenzata?
«No, avevo già definito la trama, al tempo. Perdere un proprio caro in guerra è un trauma terribile, ma almeno c’è qualcuno da accusare: il nemico. Quando un figlio cade per errore, a causa del “fuoco amico”, è un’esperienza ancora più drammatica e inspiegabile, non si sa a chi imputarne la morte. Yirmiyahu non trova pace e torna nel luogo dove è avvenuto il fatto, cercando la solidarietà dei palestinesi, tanto più che il figlio è caduto a causa di un banale gesto di gentilezza. Invece troverà ostilità e disprezzo: “Come potete pretendere comprensione, quando state occupando la nostra casa e le nostre terre?”, gli rinfacciano i palestinesi. È una situazione, questa, che racchiude tutta la tragedia dell’incomprensione fra Israele e Palestina».
– Le polemiche sull’invito a Israele alla Fiera di Torino ne sono prova...
«Non si risolve nulla boicottando la letteratura israeliana, tanto più che i suoi autori si battono per il riconoscimento della Palestina. Se invitassero gli scrittori palestinesi, ne sarei felice».