MASSIMO S. - Cosa intende papa Francesco quando parla di “clericalismo”?
Di recente papa Francesco, in un simposio sul sacerdozio, ha detto: «La vita di un sacerdote è anzitutto la storia di salvezza di un battezzato. Noi dimentichiamo a volte il Battesimo, e così il sacerdote diventa una funzione: il funzionalismo, e questo è pericoloso. Solo quando cerchiamo di amare come Gesù ha amato rendiamo visibile Dio e quindi realizziamo la nostra vocazione alla santità».
Se da un lato dovremmo impegnarci nell’opera di evangelizzare il clero, dobbiamo anche evangelizzare il cosiddetto “sacerdozio”. E ciò a partire dal linguaggio. Il Nuovo Testamento non usa una terminologia “sacerdotale” se non per Cristo nella Lettera agli Ebrei e per il popolo di Dio nella I Lettera di Pietro. Ciò accade perché la novità evangelica si contrappone al paganesimo e all’ebraismo, entro i cui contesti le figure sacerdotali rappresentavano la casta e il potere. L’uscita di scena dell’orizzonte sacrale-pagano ha messo fuori gioco i sacerdoti, così come il passaggio dal medio-giudaismo al giudaismo rabbinico, con la catastrofe della distruzione del Tempio, ha di fatto soppresso il sacerdozio all’interno dell’ebraismo. In tal modo la cultura si è desacralizzata e questo anche grazie al messaggio evangelico.
Del resto, Gesù di Nazaret non è stato un sacerdote, non apparteneva a una tribù sacerdotale, ma a quella di Giuda. La sua laicità ci fa riflettere sul riconoscimento di unico e sommo sacerdote che gli attribuisce la Lettera agli Ebrei. Il linguaggio del Nuovo Testamento e del proto-cristianesimo non chiama mai gli apostoli o i discepoli “sacerdoti”, ma utilizza diacono, presbiteri e vescovi, che ancora caratterizzano il ministero ordinato. Tali siamo e così dobbiamo restare e denominarci per non incorrere in pericolosi fraintendimenti.
Francesco invita i presbiteri a riflettere e a praticare innanzitutto il rapporto con Dio e quindi quello col suo popolo, mentre non dimentica l’accento sul presbiterio e il necessario riferimento al vescovo. Spesso si è dimenticato l’innesto del ministero presbiterale sul sacerdozio unico di Cristo e su quello battesimale del popolo di Dio e stiamo ancora pagando amaramente le conseguenze di questa cultura e di questa teologia. Per questo il messaggio del Papa, che nasce dalla sua esperienza di prete e vescovo, non può lasciare indifferente la Chiesa, per la quale e nella quale si esprime il ministero.
Peraltro risulta interessante rilevare come il sensus fidei della gente riservi il titolo di “sacerdote” pressoché esclusivamente al presbitero. E questo perché percepisce che nel momento in cui egli presiede l’Eucaristia, partecipa nella forma più alta all’unico sacerdozio del Signore Gesù. Già il beato Antonio Rosmini indicava nella “separazione del clero dal popolo” la prima piaga della santa Chiesa, segnalando come ciò accadesse a partire dal culto, che da luogo di comunione rischiava e rischia di trasformarsi in occasione di separazione. La coraggiosa e profetica denuncia del “clericalismo”, che permea il magistero di questo vescovo di Roma, continua a mettere il dito su questa piaga, mentre al tempo stesso col suo stile, anticlericale, cerca di medicarla e di guarirla.