Non è necessario che Alex Zanardi, al terzo oro paralimpico dopo i due di Londra nell'handbike (cronometro), vinca sempre per prenderci metaforicamente per le orecchie e riendirizzarci sulla giusta prospettiva, perché lo fa ogni giorno vivendo, però aiuta.
Aiuta perché quando vince esplode nella genuina esultanza di chi si scopre una volta ancora campione e l’immagine di quell’esultanza pura – di cui lo sport soltanto sa davvero cogliere l’attimo - fa bene a lui ma soprattutto fa bene a tutti noi. Ci fa bene perché non è consolatoria e perché assesta uno schiaffo al quotidiano mugugno delle nostre vite soltanto mediamente complicate.
Non voleva essere un simbolo Alex, lo è diventato vivendo perché in una situazione che più complicata non si sarebbe potuto immaginare ha scelto di non commettere l’errore che troppo spesso attanaglia gli sportivi d’alto livello: la tentazione del reducismo, la nostalgia del bel tempo andato. Di più, ha avuto l’abilità di di non tradire sé stesso e la propria autoironia.
Avrà avuto e certamente avrà ancora come tanti e più di tanti altri giornate no, ma è più bravo di noi a dirimerle guardando avanti e a non vivere concentrato su quello che non c’è. Non è solo per questo ma è soprattutto per questo che siamo così affezionati alla sua handbike puntata verso l’ennesimo traguardo, ed è per questo che ogni volta che parte vien voglia di ripetergli l’adagio di Guerre stellari augurandoci e augurandogli che la forza sia con lui, sapendo già come va a finire: con la retorica del consiglio da supereroi seppellita da una risata.
La risata di Alex: il segreto della sua grandezza di persona prima che di campione, il segreto del successo di una persona seria (ma non seriosa) a distanza di sicurezza dal rischio di prendersi troppo sul serio.