Ivrea adesso è a un bivio: affondare definitivamente nella nostalgia o ripartire. È il 54° sito italiano considerato Patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco. Un sogno realizzato nello scoppiettante dopoguerra da Adriano Olivetti che mise su la “Ditta” (come veniva chiamata allora l’azienda) immaginandola come un luogo in cui umanesimo e sistema produttivo potessero integrarsi, e dove la tecnica, il capitale e il modo di produzione restassero strumenti saldi nelle mani dell’uomo. Quel sogno ora è nel novero delle meraviglie del mondo e “Ivrea città industriale del XX secolo” è accanto alle civiltà Incas e Maya, alle piramidi di Giza e all’Acropoli dell’antica Atene. Capolavori assoluti, certo, ma di un tempo lontanissimo. Eppure era ieri quando all’Olivetti si progettava il futuro e Guido Piovene nel suo indimenticabile Viaggio in Italia (1957) definiva l’Olivetti un’«industria morale», e «ciascuna delle due parole ha il medesimo peso».
I muri raccontano la storia della città-azienda. L’ex Ico. Il Palazzo degli uffici. La fabbrica dei mattoni rossi di Camillo Olivetti. Le case sotterranee di Talponia che sono il simbolo dell’Ivrea olivettiana con quelle architetture in perfetta armonia con il paesaggio. «Ma il riconoscimento dell’Unesco non è solo all’architettura», mette subito in chiaro Nico Osella, 81 anni, entrato in Olivetti a 16 anni come fattorino e andato in pensione come responsabile dell’auditing di tutto il gruppo e amministratore della Aerofly service.
Sì, perché i muri non bastano. Lo spirito di quest’avventura lo devi tirar fuori da coloro che in via Guglielmo Jervis hanno lavorato, progettando le macchine da scrivere, come la mitica Lettera 22 di Indro Montanelli, e poi gli M24, i nonni dei personal computer, e magari hanno avuto pure la fortuna d’incrociare Adriano che in questa città bagnata dal fiume Dora aveva creato la Silicon Valley italiana, guardata come modello anche da Steve Jobs.
Sei giorni dopo aver conquistato Palazzo di Città mettendo fine a più di mezzo secolo di dominio incontrastato della sinistra, il sindaco Stefano Sertoli (centrodestra e lista civica) è volato nel Bahrain per portare a casa il riconoscimento Unesco. Ora rende l’onore delle armi al predecessore, Carlo Della Pepa, che ha lavorato dieci anni per questo risultato, e riflette: «Quanto sancito dall’Onu è un’opportunità enorme. La sfida è far percepire agli altri le potenzialità dell’architettura olivettiana che va recuperata e rimessa in sesto». Molti della sua parte politica non erano affatto entusiasti di questa candidatura. Acqua passata. La bolla dell’Unesco ha unito (quasi) tutti scompaginando felicemente priorità e agende. Ora si tratta di mettere a frutto la “vittoria”. «La prima cosa da non fare è chiuderci in noi stessi, Ivrea ha una grandissima occasione di aprirsi all’Italia e al mondo», ammonisce Sertoli, che elenca le priorità: «Creare strutture alberghiere per accogliere i turisti e riempire di contenuti questo riconoscimento».
In via Jervis, davanti alla fabbrica dei mattoni rossi, incontriamo Maurizio Perinetti, ex candidato di centrosinistra sconfitto per una manciata di voti da Sertoli al ballottaggio del 24 giugno scorso: «Dal riconoscimento dell’Unesco deve nascere un’alleanza tra la città e il mondo delle imprese, perché Ivrea diventi polo di ricerca e innovazione sociale della città metropolitana di Torino».
Quello delle architetture olivettiane oggi è un arcipelago frastagliato. Molte strutture sono chiuse, altre ospitano alcune aziende, in un’ala dell’ex fabbrica c’è la facoltà di Infermieristica dell’Università di Torino. Nella cittadella di Talponia, una accanto all’altra, ecco le villette dei dirigenti e le abitazioni degli operai. Niente separazioni o ghetti. Ogni pietra da queste parti è la rivisitazione della città ideale del Rinascimento come voleva Adriano.
La portineria della fabbrica è incredibilmente aperta e ariosa e riassume perfettamente la concezione di fabbrica di Olivetti. «Quella della Fiat sembrava la guardiola di un carcere», dice Carlo Alberton, 83 anni, olivettiano doc, in azienda dal ’49 al 1978 come programmatore. Sugli operai del Lingotto vegliavano ex carabinieri, su quelli Olivetti gli psicologi perché Adriano insediò il primo centro di psicologia del lavoro affidandolo a Cesare Musatti. Franco Cattaneo, 86 anni, ha lavorato in Olivetti per 35 anni e conosceva una a una le migliaia di pezzi delle macchine da scrivere che ripara ancora per hobby: «Adriano diceva che nel Vangelo ci sono tutte le soluzioni».
Il riconoscimento Unesco “divide” gli ex olivettiani tra ottimisti e pessimisti. C’è chi lo considera un buon viatico per rilanciare “il” sogno che loro hanno vissuto. E chi invece, come Alberto Pichi, 85 anni di cui 33 trascorsi in “ditta” a gestire il personale, è più dubbioso: «L’Unesco ha dato una sterzata all’orgoglio di Ivrea, però molti stabilimenti, come quello di Scarmagno, sono abbandonati e decadenti. Il patrimonio immateriale dell’Olivetti non è soltanto qui».
E se la conquista del titolo fosse addirittura una beffa? Qualcuno, a Ivrea, lo pensa pure. Come se la creatura di Olivetti, ora che l’Olivetti non c’è più, fosse un reperto del passato e non un’impresa capace di stare sulla scena del mondo perché era la prima nel suo settore, per la qualità e l’originalità dei suoi prodotti, per i profitti, gli investimenti, l’innovazione tecnologica e la sua fissazione a retribuire e a trattare i suoi operai come i veri protagonisti del successo. Tutte cose largamente osteggiate dal gotha industriale italiano che considerava Olivetti una scheggia impazzita del sistema.
Marco Peroni è autore di una bella guida di Ivrea, pubblicata dalle Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata da Adriano, al quale ha anche dedicato uno spettacolo teatrale: «Il rischio musealizzazione», dice, «non deriva dal riconoscimento Unesco ma dall’incapacità di comprendere intellettualmente e nella sua interezza l’esperienza di Adriano Olivetti. Oggi c’è il rischio spezzatino: la sinistra vede in Olivetti il padrone buono, il Movimento 5 Stelle il teorico della democrazia, Confindustria l’innovatore. Attenti a non ridurre Adriano a un brand per Ivrea. Bisogna celebrarlo di meno e studiarlo di più. Anche perché lui non era avanti, era altrove». Far conoscere l’avventura olivettiana è il compito di Beniamino de’ Liguori Carino, nipote di Adriano e segretario generale della Fondazione dedicata al nonno.
Comunità come condivisione e partecipazione. Innovazione come condizione dell’industria moderna. Fabrizio Gea, presidente di Confindustria del Canavese, sostiene che lo spirito olivettiano è stato fondamentale perché il territorio si reinventasse dopo la chiusura della “Ditta”: «Prima c’era la grande azienda che dava lavoro a tutti, ora ci sono migliaia di imprenditori che sono rimasti e lavorano nell’automotive e nella manifattura. Qui si lavora il 50 per cento dell’acciaio italiano. Il lutto economico per la fine di Olivetti ha avuto bisogno di due generazioni per essere assorbito. Ora è tempo di guardare al futuro e far rivivere l’Olivetti in altro modo».
Foto di Paolo Siccardi/Walkabout