Don Rosario Giuè, teologo e
sacerdote palermitano, ha preceduto
padre Pino Puglisi alla
guida della parrocchia di San
Gaetano a Brancaccio. Vescovi
e potere maoso è il titolo del suo nuovo
saggio, pubblicato dalla Cittadella
Editrice di Assisi e introdotto da una
prefazione di don Luigi Ciotti.
Nei primi del Novecento, il cristianesimo
sociale denunciò i rapporti
tra mafia e politica: vi furono anche
martiri tra i sacerdoti siciliani, nella
quasi totale indifferenza delle gerarchie
ecclesiastiche. Le prime svolte
avvennero soltanto negli anni Sessanta,
grazie al concilio Vaticano II...
«Giovanni XXIII aprì il Concilio
per spingere tutta la Chiesa a uscire
dall’immobilismo autoreferenziale.
Questa linea, però, non aveva molto
seguito nei rappresentanti della Chiesa
italiana di allora, per la quale i nemici
erano il comunismo e la laicizzazione
del Paese».
Negli anni Ottanta nonostante
non vi fosse una presa di posizione
ufficiale della Chiesa contro la mafia, vi furono interventi individuali
di vescovi del Sud come Pappalardo,
Riboldi, Casale, o di sacerdoti di frontiera
come don Ciotti, padre Stabile,
padre Fasullo, la grande stagione dei
parroci antimafia.
«Forse la preoccupazione principale
era quella di mantenere l’unità
politica e culturale dei cattolici. Si mirava
a strutturare una presenza della
Chiesa italiana che ne evitasse la marginalizzazione».
Nel suo volume lei evidenzia che
nel 1992, in un’Italia indignata per le
stragi di Capaci e di via D’Amelio, la
Chiesa non insistette nel nominare
esplicitamente Falcone e Borsellino.
Come giudica tale scelta?
«La presa di posizione della Chiesa
sembrò generica. Si parlò solo di
“tragedie” e di “impudenti imprese”.
In occasione del sequestro e dell’uccisione
di Aldo Moro, però, la Chiesa
si era schierata apertamente».
Nel 1993, però, Giovanni Paolo II,
dopo aver incontrato i genitori del
giudice Livatino ucciso nel 1990, nel
celebre discorso nella Valle dei Templi
di Agrigento, scagliò un anatema
contro la mafia…
«Sì, quel grido di Wojtyla ai mafiosi – “Convertitevi!” – è divenuto
un simbolo. Va colto come indicazione
di una direzione di marcia per la
Chiesa nell’impegno di liberazione
dalla struttura di peccato mafiosa».
Nel suo libro paventa il rischio che,
con la beatificazione di padre Pino Puglisi,
la Chiesa si soffermi più sul martirio
cattolico che non sul martirio di
migliaia di vittime laiche...
«Uomini e donne giusti, da noi,
non vengono uccisi in odio alla fede
perché credono, ma perché amano e
lottano accanto alle vittime. In questo
senso si può dire che Puglisi, come Falcone
e Borsellino, è stato ucciso a causa
dell’amore per il suo popolo».
La continuazione dell’impegno
della Chiesa contro la mafia è rappresentata
dal pontificato di Francesco
che, tra gli altri gesti simbolici, indossa
la tunica di don Peppe Diana e
incontra i familiari di tutte le vittime
riuniti da Libera, abbracciando don
Luigi Ciotti. Un momento storico che
rivoluzionerà per sempre i rapporti
tra mafia e cattolicesimo?
«Papa Francesco desidera una Chiesa
italiana in uscita. Con Bergoglio la
Chiesa italiana ha l’opportunità storica
di una svolta, anche sul potere mafioso. Questa opportunità va colta con
generosità. È il mio auspicio».
Un auspicio che è anche alla base
della scelta di scrivere il libro su un
tema così spinoso…
«È un punto fondamentale. La
questione del rapporto tra Chiesa
cattolica e potere mafioso non è un
capitolo chiuso. La posta in gioco è la
stessa credibilità nell’annuncio del
Vangelo. Sono convinto, però, che se
non si parte dalle scelte dei vertici della
Chiesa italiana sarà più difficile poi
chiedere al solitario parroco d’impegnarsi.
Anche io, comunque, mi sento
impegnato, lealmente, a favore del rinnovamento
nella Chiesa e della mia
Chiesa».