Forse i rischi più gravi del coronavirus, dei quali meno si parla, sono la disumanizzazione, l’irrazionalità, la superficialità, l’egoismo crescenti. Per quanto l’emergenza sia seria, abbrutirsi di certo non giova a fronteggiarla. Non serve la paura matta, che porta ad accaparrarsi con fare compulsivo derrate alimentari (come in periodo di guerra) o mascherine e Amuchina in dose massiccia, “beni” per cui è nato, altro segno di cinismo inquietante, una sorta di mercato nero che ricorda molto da vicino certo sciacallaggio dell’epoca bellica. Tanto meno ha una qualche utilità il pregiudizio anticinese o antitaliano che serpeggia sul piano internazionale, come se il virus avesse una nazionalità. Si ha quasi la sensazione che prevalga quell’odiosa, fredda mentalità, mostruosamente individualista, del “mors tua, vita mea”. Ma le epidemie nel mettere in mostra le fragilità umane e l’indeterminatezza del domani persino per le persone o i Paesi più potenti, dovrebbero spingere a un senso di unità e di solidarietà più forti.
In questi giorni c’è stato un fitto dialogo tra la Segreteria generale della Cei e le istituzioni del Paese. Si è condivisa la preoccupazione per la salute di tutti e il bisogno di collaborare per ridurre smarrimenti e paure. Ma nello stesso tempo sono state rappresentate anche le aspettative delle comunità cristiane, che si sono sentite colpite dalle restrizioni o dalla rinuncia alla Messa. “Alla fede ai tempi del coronavirus” dedichiamo un ampio servizio su questo numero.
A proposito delle nuove disposizioni approvate dal Governo per fronteggiare l’epidemia, ha dichiarato significativamente il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana: «Il pieno rispetto di esse esprime la doverosa disponibilità a condividere fino in fondo le difficoltà che il Paese sta attraversando: è il momento di una corresponsabilità nella quale la Chiesa porta il suo contributo di preghiera, di speranza e di prossimità. Questa prova deve poter costituire un’occasione per ritrovare una solidarietà che affratella».
Pensare quindi non solo a se stessi. Pensare ai drammi molto seri che continuano a consumarsi in Siria o tra i rifugiati sull’isola di Lesbo (al centro del reportage di questa settimana). Ma non dimenticare, presi dalla personale angoscia o fobia, anche chi è già colpito. Fra i contagiati ci sono tanti anziani in quarantena, isolati dagli affetti, da tutto e da tutti, di certo soggetti più fragili, non solo fisicamente. Forse, donando loro un telefonino, si potrebbero usare le nuove tecnologie per far sentire l’affetto. E anche i media potrebbero essere d’aiuto in questo senso, piuttosto che “lucrare” sugli ascolti.
E invece si indulge troppo spesso all’allarmismo, da un lato, e dall’altro alla tv-spazzatura, che neppure in momenti drammatici come questi, negli studi senza pubblico per via del coronavirus, rinuncia alle sfide all’ultima parolaccia o ai talk sul nulla, su finte dispute amorose e affini. Eccessivi anche gli sfoghi, le polemiche per via delle partite rinviate: il calcio resta pur sempre un gioco. Nessuna epidemia può privarci dei valori e del buon senso. Due cose di cui c’è un grande bisogno in un’ora così difficile.