Paola Guerra Anfossi
«Quasi nessun rischio si manifesta all’improvviso». Dal terremoto al terrorismo, dagli attentati ai rapimenti a chi è all’estero per lavoro. «Prevenire, senza ignorare i rischi, significa sicurezza ma anche etica, nel senso di cura della persona». Parola di Paola Guerra Anfossi, un passato da docente di Gestione del rischio alla Bocconi e alla Cattolica di Milano e un presente da direttrice della Scuola internazionale di alta formazione di etica e sicurezza, fondata insieme al marito a L’Aquila. «Nel 2010 – ricorda – con una rete di colleghi e manager ci mettemmo al servizio degli aquilani terremotati». Ora la Scuola ha due sedi (Milano e L’Aquila), 80 aziende come clienti, 480 allievi. Dice: «Se gli italiani sono esperti nella gestione delle emergenze, sulla prevenzione dovrebbero invece imparare dal mondo anglosassone». Per la docente, un settore è particolarmente scoperto: «Quando un datore di lavoro manda un dipendente all’estero, deve garantire la sua sicurezza. Se non lo fa, è penalmente responsabile». Pochi lo sanno, eppure secondo i dati Istat e Bankitalia sono più di 30mila le aziende italiane che hanno scelto di internazionalizzarsi investendo all’estero: parliamo di un fatturato complessivo di oltre 500 miliardi di euro, di una dislocazione che dà lavoro a oltre un milione di dipendenti, con punte di crescita dell’82% nel comparto edile e il boom dei servizi assicurativi. Ne parliamo con Paola Guerra Anfossi.
Degli attentati terroristici colpisce che non sono prevedibili…
È un’idea sbagliata. Dall’ultimo di Stoccolma a quello di Londra sono invece caratterizzati dalla ripetitività dello schema. Per prevenirli occorrono professionisti capaci di cogliere segnali deboli (i sopralluoghi di certi tipi di persone, vestite in un determinato modo) e che, in caso di allarme, sappiano come agire. Sono i temi che abbiamo appena affrontato in un corso sul terrorismo (“Conoscere e saper agire”) che ci è stato commissionato da una catena di centri commerciali. In questo momento le marche del lusso, specie quelle francesi, sono simboli particolarmente attenzionati.
Quali sono i temi che affrontate?
Tre in particolare: gestione dei rischi nelle trasferte all’estero, cogliere i segnali deboli del terrorismo, affrontare le emergenze sviluppando la resilienza. Al centro sono sempre le persone, con le loro reazioni emotive, più che le procedure: la capacità di ripartenza degli aquilani dopo il terremoto, e delle piccole e medie aziende di quel territorio, è stata un modello. Guardando all’estero, il modello è Israele dove il rischio attentati è sempre presente. Oppure, per gestire le emergenze, il Giappone, in cui si vive sempre sospesi di fronte a una possibile catastrofe: in fondo, prima del terremoto del 2009, all’Aquila c’erano state cento scosse in sei mesi, tutta una serie di segnali non certo deboli. Non è possibile formare persone che non si spaventano, ma oggi in Abruzzo molti sanno cosa fare e hanno una borsa pronta con venti oggetti necessari in caso di scosse.
Chi frequenta i vostri corsi?
Quelli più approfonditi sono rivolti a persone deputate all’interno di aziende o istituzioni a gestire tutto ciò che ha a che fare con la crisi e la sua prevenzione, spesso in posizioni apicali. Corsi più brevi, anche online, possono essere proposti in modo più trasversale ai dipendenti. Inoltre, tra i partecipanti è sempre più numeroso il personale che viaggia o lavora all’estero. Qui il panorama è sconvolgente, segnato dall’ignoranza da parte dei datori di lavoro rispetto agli obblighi verso i dipendenti.
In che senso?
La maggior parte delle 30mila aziende italiane che fanno affari all’estero non sa che, prima di autorizzare anche solo una trasferta, dovrebbe fare un’analisi e valutazione dei rischi. Vale per tutte le professioni, anche per giornalisti e cooperanti (le ong su questo hanno scarsa consapevolezza). Noi insegniamo come si fa quello che, in gergo tecnico, si chiama Travel Risk & Crisis Management. In base ai rischi – dal terrorismo alla possibilità di rivoluzioni, dalle malattie alle aggressioni e rapine, dai rapimenti ai terremoti – si dividono le trasferte, più o meno lunghe, in tre gradi di allarme. Ora la Turchia ha raggiunto un alto livello di pericolosità.
Le aziende sono responsabili di capire se il viaggio è opportuno o no, quali accortezze sono necessarie, informando il dipendente e formandolo a un certo tipo di accortezze. A differenza di quando si è in Italia, all’estero l’azienda è responsabile della sicurezza del dipendente anche in orario extra-lavorativo, ad esempio se venisse aggredito alla sera in un locale. Noi, in caso di trasferte, ci occupiamo di organizzare la sicurezza con partner locali, che vengono a prendere il cliente già all’aeroporto; si tratta di una filiera di attività che va dallo studio iniziale fino alla gestione finale.
E se le aziende non lo fanno?
Si espongono a responsabilità penali in base a diverse norme, a partire dal Decreto 81 sulla salute e sicurezza sul lavoro e dal Decreto 231. A oggi in Italia sono solo una decina le società del tutto a norma su questo. Il tema non va trattato con superficialità, come insegna il caso Bonatti in cui la Procura di Roma contesta ai vertici della società di Parma l'accusa di omicidio colposo in merito alla morte di Fausto Piano e Salvatore Failla, i due operai morti un anno fa in Libia durante il sequestro da parte di gruppi armati. Secondo l’accusa, la morte poteva essere evitata se l’azienda, da anni impegnata nel settore oil and gas con appalti commissionati dalle più grandi compagnie petrolifere, avesse adottato una serie di misure preventive obbligatori.
Perché il vostro Centro studi associa sicurezza ed etica?
Sicurezza vuol dire “sine cura”, senza preoccupazioni. Per avere sicurezza servono individui in grado di riconoscere i rischi: non persone chiuse in casa, ma che sanno come mitigare i pericoli. Al centro della sicurezza ci sono decisioni umane: una è se scelgo di formare e informare sui rischi, o se faccio finta di nulla “così le persone non si spaventano”… Questo è decisamente un dilemma etico. Così come è etica dire alla popolazione che dopo un terremoto servono 10-20 anni per riscostruire tutto, senza illudere che ciò avvenga in 3-4 anni.