È finito su tutti i giornali, il testamento di Bernardo Caprotti , patron dell’Esselunga, e non poteva essere altrimenti, vista l’importanza economica del gruppo, la sua storia industriale, ma anche, certamente, la sua storia economico-familiare. Dal punto di vista strettamente economico in effetti molto si potrebbe dire, a partire dalla innovatività degli inizi, nel 1957 – primo supermercato in Italia, primo negozio con prodotti prepesati e preconfezionati-, passando per l’originalità delle campagne pubblicitarie, mai volgari, mai aggressive – e di questi tempi non è poco!. Per arrivare ad un’azienda che vale miliardi e che dà lavoro a migliaia di persone.
Ma quello che colpisce di più, e di cui il testamento è l’ultimo coerente atto, è la tenacia e la determinazione con cui Caprotti ha voluto restare imprenditore di famiglia , e ha tentato di “trasmettere” questa responsabilità imprenditoriale alle generazioni successive. In effetti questo testamento è il “secondo” trasferimento di Esselunga nelle mani di alcuni dei propri figli. Solo che il primo, attorno al 2010, stava andando male, come spesso capita in molte imprese familiari. I figli, cioè, ricevuta la responsabilità dell’impresa, la stavano vendendo, senza farne il propri lavoro (e la propria passione), ma facendone semplicemente il proprio “profitto”. A quel punto Caprotti padre fece un improvviso e fragoroso dietro-front, ritirando ogni delega ai figli e riportando a sé tutte le responsabilità imprenditoriali del Gruppo. Doveva avere quasi 80 anni, Bernardo Caprotti, quando prese nuovamente su di sé questo compito. Del resto, un imprenditore che si faceva comprare quasi ogni giorno i prodotti di rosticceria “in incognito”, e li assaggiava regolarmente, per vedere se “funzionavano”, come faceva a pensare che, appena uscito dall’azienda, la sua opera sarebbe stata venduta senza battere ciglio, magari attenti solo ai margini di profitto? Ora il testamento affida il compito di fare l’imprenditore a moglie e figlia, con l’idea che l’opera possa essere continuata.
La difficoltà di trasferire l’impresa familiare alle generazioni dei figli è nota nella letteratura economica, e molto spesso questa operazione fallisce; un po’ perché il carisma dell’imprenditore che inventa un’attività non è così facilmente ereditabile, forse un po’ anche perché i figli degli imprenditori non fanno la fatica che ha fatto chi è partito da zero, forse anche perché nella stessa famiglia la trasmissione dei valori non funziona bene (e magari lo stesso imprenditore non c’è mai, come figura paterna, perché deve mandare avanti l’azienda…). Ma quello che la vicenda di Caprotti suggerisce è che “pensare per generazioni” vuol dire preoccuparsi del futuro, ed è l’unico atteggiamento serio nei confronti della vita. Magari non si fanno le scelte giuste, ma preoccuparsi per la propria eredità in questo caso non è stato il puro conteggio dei soldi, ma la domanda su “cosa sarebbe rimasto di concreto”, dopo anni di impegno, per i propri figli, ma anche nella storia.
Si tratta tra l’altro di una questione decisiva per l’Italia, che è piena di casi aziendali di “imprese familiari”, che resistono alla competizione globale senza snaturare se stesse; e senza diventare grandi multinazionali anonime, dove la passione imprenditoriale viene cancellata a favore del gelido profitto. E questo spesso porta a preferire la finanza e a non investire sul lavoro e sull’azienda , rendendo anche le imprese sterili, pure “macchine per soldi”, che si possono chiudere o riaprire dall’altra parte del mondo, purché “convenga”.
Un ultimo segnale dal testamento di Caprotti è stata anche l’attenzione ai propri più stretti collaboratori , a conferma che il lavoro e l’azienda sono anche luoghi di relazioni interpersonali, anche di fiducia. Insomma, il caso Caprotti suggerisce di pensare meglio anche il rapporto tra famiglia ed attività economica, perché in entrambi gli ambiti si vive di relazioni, e anche in ambito economico la famiglia può generare capitale sociale, di cui beneficia l’intera società.