Don Aldo Rabino. Tutte le foto di questo servizio sono tratte dal sito ufficiale della squadra granata: www.torinofc.it.
Quest'anno il campionato inizia orfano di un grande prete: don Aldo Rabino, sacerdote salesiano, classe 1939, per 44 anni cappellano del Torino Calcio. Commozione e gratitudine tra i tantissimi che hanno gremito la basilica di Maria Ausiliatrice, a Torino, per i funerali, celebrati dall'arcivescovo di Torino monsignor Cesare Nosiglia: c'erano i confratelli salesiani, c'erano molti suoi amici preti, tra cui don Ciotti, c'erano le autorità del Comune e della Regione, c'erano volti noti del calcio di ieri e di oggi, c'erano i giovani, c'era il popolo granata, c'erano tanti torinesi, silenziosi volti di una città.
L'attività col Torino Footbal Club era l'aspetto più noto di una
particolarissima missione che aveva in realtà tante facce: la passione
educativa, l'oratorio, la vita vissuta accanto ai giovani, la voglia di
stare con loro, di sudare insieme a loro su campi di calcio polverosi e
senza nome. E poi l'impegno missionario nel Mato Grosso, in
Brasile, altra esperienza cui don Aldo aveva scelto di dedicare la vita.
«Don Aldo si è nutrito di Vangelo e sul Vangelo ha scommesso tutta la
sua esistenza - ha ricordato durante l'omelia monsignor Nosiglia - Lo
ha fatto perseguendo con entusiasmo e responsabilità la via dello sport,
vissuto come fonte di gioia ma anche di riscatto e di crescita
educativa della persona, non di pura ricerca del primato e di un ruolo
importante. Ha sempre richiesto ai suoi ragazzi, testimoniandolo in
prima persona, di non rinunciare ai valori etici e di solidarietà, per
arrivare ad essere osannati dai tifosi o dalla stampa; la sua via è
stata quella di sacrificarsi e pagare di persona per promuovere la
giustizia e la dignità di tanta gente bisognosa nei paesi poveri del
mondo». «La sua via - ha proseguito l'arcivescovo - è stata quella
della fede vissuta nella fedeltà alla preghiera e all’Eucaristia, alla
devozione a Maria Ausiliatrice; la via dell’amicizia schietta ed
esigente, aperta a tutti senza preclusioni, che suscitava gioia nel
cuore di chi lo frequentava».
La catechesi e le partite, la preghiera e gli allenamenti: ecco la
quotidianità di un'ex promessa del calcio che agli applausi degli stadi
aveva preferito la vicinanza a Cristo. La sua avventura con il Toro,
unico grande club italiano a prevedere la figura del padre spirituale,
era iniziata quasi per caso, nel lontano 1971. «Nessun vescovo mi ha
mai nominato - ricordava spesso il sacerdote - Fu la società a
chiamarmi». E grazie a una serie di circostanze favorevoli
quell'esperienza proseguì negli anni, in un clima di grande familiarità e
rispetto: la semplicità e la schiettezza di don Aldo gli permettevano
di entrare in dialogo con credenti e non.
Ben nota era la sua irriducibile passione granata. Nelle
domeniche in cui la squadra non era in trasferta celebrava la Messa per i
giocatori e per lo staff. Per i tifosi era un'istituzione, uno di casa.
Il Toro era un po' la sua parrocchia e nelle alterne vicende di una
squadra dal glorioso passato, ma dal presente sempre in bilico fra
successi e cadute, lui sapeva vedere una metafora della vita. Non solo
di quella sportiva. Della vita in generale, con i suoi misteri
insondabili e le sue piccole o grandissime vittorie da sudare.
Monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, celebra i funerali di don Aldo Rabino.
Ma questo era, come dicevamo, solo un aspetto della vita di don Rabino.
Parallelamente c'era il lavoro nell'ombra, c'era lo "sporcarsi le mani"
in mezzo ai giovani, essenza stessa della vocazione salesiana. Nella
casa di Maen, in Valle d'Aosta (il luogo in cui è spento pochi giorni
fa) ha accompagnato alla vita adulta generazioni di ragazzi. Lo sport
era un aggancio, quasi un pretesto per trasmettere con la concretezza
dei fatti i grandi valori del vivere. In particolare il calcio,
proprio in virtù della sua popolarità, era secondo don Aldo un
formidabile strumento per allenare il cuore (e non solo il corpo) alle
regole di squadra, alla fatica, all'altruismo. Nella sua stessa
esperienza di vita sembrava di poter cogliere una specie di
"predestinazione".
Come lui stesso ha raccontato molti anni dopo, il 4 maggio del 1949,
mentre si trovava in colonia a Loano (in Liguria), è stato uno tra gli
ultimi a scorgere in cielo l'aereo che riportava a casa il Grande
Torino, poco prima del tremendo impatto con la collina di Superga. Una
specie di presagio, verrebbe da pensare. Da adolescente ha dimostrato un
notevole talento come calciatore, militando nello Spartanova, una
vivaio che a quei tempi poteva garantire l'accesso a società di prima
grandezza come il Torino e la Juventus. Probabilmente sarebbe diventato
un professionista, chiamato da qualche club prestigioso, se proprio in
quegli anni non fosse arrivata ben altra "convocazione": «Per me l'oratorio era tutto - ricordava, evocando quel periodo - Lì respiravo la pienezza di vita». Ecco allora la decisione: non calciatore, ma prete salesiano.
Del calcio di oggi don Rabino vedeva tutti i limiti e le incongruenze,
tanto da definirlo «solo un lontano parente di quello che praticavo
io». In più occasioni si era espresso contro il giro d'affari fuori
controllo, la cultura dell'usa e getta, la tendenza a creare idoli per
poi distruggerli in pochissimo tempo. Non per questo si era tirato
indietro: ha lottato "sul campo" fino all'ultimo, «perché - diceva - non
ci servono mercenari, ma veri educatori, profeti cresciuti sull'esempio
di don Bosco». Impossibile poi dimenticare la missione in Mato
Grosso (Brasile) dove don Aldo è stato di persona alla fine degli anni
'60 e che ha poi sempre continuato a seguire attraverso l'associazione
O.a.s.i.