«E’ un grande piacere per me interpretare don Lorenzo Milani. Quando mi è stato proposto, la paura era di non riuscire a rendere la complessità del personaggio. Mi sono stati d’aiuto gli autori e i colleghi, tutti molto capaci. Io sono il capitano di una squadra, quindi ho una grande responsabilità, ma non gioco da solo». Racconta così la sua esperienza, l’attore Alex Cendron, che dal 20 al 26 luglio a San Miniato (Pisa), dà voce e cuore al prete di Barbiana, nella pièce “Vangelo secondo Lorenzo”, firmata da Leo Muscato e Laura Perini, e co-prodotta da Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Metastasio, Arca Azzurra e Fondazione Istituto Dramma Popolare, nell’ambito della Festa del Teatro 2017. Lo spettacolo, in occasione del cinquantenario della morte di don Lorenzo, è parte di un ampio progetto celebrativo promosso dalla Regione Toscana.
Per questa 71esima edizione la Festa del teatro ha cambiato location, trasferendosi dalla piazza del Duomo alla chiesa di San Francesco. Dopo che negli anni scorsi sono state attuate varie sperimentazioni di commistioni fra pubblico e attori, si è tornati alla classica situazione di platea e palcoscenico.
La trama ripercorre l’apostolato sacerdotale di don Milani, prima cappellano nella parrocchia di San Donato a Calenzano e poi priore a Barbiana di Vicchio. Attorno al protagonista, ruotano altri undici attori e cinque bambini nel ruolo degli allievi di Barbiana. La scena è scarna, a volte una poltrona, un tavolo, infine il letto di morte. Anche questa scelta sottolinea l’essenzialità della vita di don Milani.
L’interpretazione di Cendron è piaciuta visti i ripetuti applausi, ma qualcuno ha sottolineato il linguaggio un po’ troppo colorito.
Cendron, bisogna essere credenti per interpretare uno come don Milani?
«No, basta prepararsi. Io mi sono letto tutti i suoi scritti principali e ho studiato i suoi tratti e la sua voce, ma non per cercare di imitarlo, piuttosto per dare al personaggio maggiore credibilità. Per quanto mi riguarda, sono stato un credente molto forte, ma non maturo. Poi, con la maturità della fede, mi sono venuti più dubbi di prima, di quando ero più naive nella fede».
Per la Chiesa contemporanea – sono gli anni ’50-’60 - don Lorenzo è scomodo, tanto che viene assegnato a parrocchie poco “appetibili”, ma dove lui prova a dare un senso all’insegnamento di Gesù Cristo. Calenzano è un distretto tessile alle porte di Firenze dove gli operai sono sfruttati, e dove pertanto le tensioni sociali, latenti o manifeste, sono all’ordine del giorno. Qui avvia una Scuola Popolare, convinto che non si possa portare la parola di Cristo a chi non sa leggere e scrivere. La sua missione diventa alfabetizzare il popolo di fedeli che Dio gli ha affidato; fornire loro l’istruzione civile e la coscienza dei propri diritti. La scuola è aperta a tutti: parrocchiani e comunisti, atei e credenti. La Curia non apprezza e trasferisce don Lorenzo a Barbiana, insieme di poche case sparse sul Monte Giovi. Un luogo che vivrà come un esilio forzato, ma anche come una prova a cui Dio lo sottopone nel disegno misterioso che ha in serbo per lui. Altro contesto, stesso problema: i ragazzi non vengono mandati a scuola perché devono occuparsi delle mucche e dei maiali. Il priore va casa per casa e convince i genitori, così prende avvio uno dei più interessanti laboratori pedagogici dell’Italia del dopoguerra. La scuola di Barbiana è una sorta di piccola repubblica dei ragazzi: si studia tutto il giorno, non ci sono pause ricreative, non ci sono voti, i più grandi insegnano ai più piccoli.
L’altro “passo falso” di don Milani è l’interesse vero la politica, nel senso più nobile del termine. La “Lettera ai cappellani militari” sull’obiezione di coscienza, gli procura l’accusa di apologia di reato. E’ allora che intellettuali e accademici si accorgono di quello che sta accadendo in quella piccola parrocchia sperduta, e molti salgono lassù a curiosare. Seguiranno “Esperienze pastorali”, inchiesta sull’apostolato tra le classi povere e la condizione operaia, e la famosissima “Lettera a una Professoressa”, prodotta dagli stessi studenti, che lanciano così un grido d’allarme contro la scuola pubblica di stampo borghese, che respinge gli ultimi, figli di operai e contadini.
Don Lorenzo ha avuto una vita breve, è morto a soli 44 anni, circondato dall’affetto di tanti. Ma il suo radicalismo evangelico – abbracciato da un uomo che era di famiglia borghese e avrebbe potuto scegliere la vita agiata - è qualcosa di vivo, al quale la visita di papa Francesco alla sua tomba, il 20 giugno scorso, ha ridato vigore.
«Si può essere o meno d’accordo con don Milani» conclude Cendron, «ma resta un personaggio molto affascinante, non mi stupisce che alcune parti di Chiesa lo abbiano avversato. Aveva un carattere ostico, e per questo era scomodo, una spina nel fianco. Ma aveva un nocciolo così forte, legato alla fede, da renderlo inattaccabile. Attaccarlo sulla forma, sulla rudezza, è come guardare un dito quando qualcuno sta guardando la luna». E se il prezzo di un impegno così significativo è stato la “testa dura”, è un peccato veniale, visto che anche il suo confessore, don Raffaele Bensi, al “figliolo” che ormai sta morendo, dice: “A quelli come te, Dio permette tutto, anche di bestemmiarlo”».
