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sabato 09 novembre 2024
 
 

Il Vangelo, più di una buona notizia

15/05/2011  Annuncio del Vangelo, immigrazione e laicità. Al Salone del Libro di Torino Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, ha illustrato come vede la Chiesa nella società di oggi.

La pubblicazione da parte delle edizioni Messaggero di Padova di un Evangeliario è stata l’occasione per far incontrare il grande pubblico presente al Salone del Libro di Torino con fratel Enzo Bianchi. Il priore di Bose, ormai da anni ospite fisso della grande kermesse torinese, ha risposto alle domande provocatorie di padre Ugo Sartorio, direttore delle Edizioni Messaggero, su un soggetto decisivo per la vita credente, che ha dato anche il titolo a questo gustoso appuntamento: Il Vangelo, annuncio per la vita buona. Riportiamo di seguito una sintesi del colloquio svoltosi davanti a oltre 500 spettatori.


Fratel Enzo, i cristiani secondo la prima lettera di Pietro devono rendere testimonianza al mondo della loro speranza con mitezza. Oggi, secondo lei, i cristiani stanno rispondendo a questo invito?
Quando noi diciamo Vangelo, dovremmo in realtà pensare a una buona notizia. La parola greca euangelion significa proprio questo. Una buona notizia. Essa si attende, la si auspica , si desidera proprio perché porta felicità, gioia... E riguarda tutti. Ma il Vangelo rappresenta per noi cristiani ancora, come indica il termine, un messaggio di gioia? La Bibbia in realtà è una “biblioteca” enorme di parole e di concetti di tutti i tipi: vi sono racconti, norme, episodi, invettive, etc. e quindi non tutta la Bibbia si può definire propriamente “Vangelo”. Se si è pensato di chiamare proprio “Vangelo” quattro piccoli  libri su Gesù, allora  evidentemente qualcuno ha ritenuto duemila anni fa che essi sono proprio una “buona notizia”, non prioritariamente un “insegnamento” o dei semplici  cenni biografici su Gesù o ancora delle norme etiche. Semplicemente una buona notizia. Ho purtroppo l’impressione che noi oggi non abbiamo questa idea del Vangelo e che ne abbiamo fatto piuttosto un ricettario di etica. Insomma, credo che prima esso dovrebbe risuonarci come “buona notizia” e solo poi come “comportamento”. Dovremmo sentire la gente dire: “Ho sentito qualcosa che mi interessa e che mi spinge verso la felicità!”. E poi c’è anche un modo di dare una buona notizia: non si può darla in modo rabbioso, pigliandosela con le persone a cui la si annuncia, insomma  con diffidenza. Ecco, credo che lo stile sia un po’ anche  il messaggio. Forse oggi noi cristiani non sappiamo comunicare il Vangelo se non come una  specie di riserva di regole morali. Oppure, come era una volta, una riserva di verità. Certo, i dogmi fanno parte della nostra fede e sono indispensabili ma c’è un primo momento in cui devo ricevere la buona notizia e solo dopo, anche con l’uso della ragione, cercherò  di incarnarla nella mia vita. Un caso concreto ci è offerto dal brano del Vangelo di Giovanni sull’adultera: alla richiesta degli ebrei di punire la donna perché colta in fragrante adulterio, Gesù si china e scrive per terra qualcosa … di cui non resterà nula… Poi Gesù, dopo un momento di silenzio, dice la famosa frase: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Tutti se ne vanno a cominciare dai più vecchi. Persone oneste - oggi forse non se ne andrebbe nessuno - ma quello che per Gesù conta è solo la conversione della donna, che avviene perché ha sentito la “buona notizia” del perdono, insomma perché si è sentita amata.


Fratel Enzo, sugli immigrati lei ha sempre ragionato Vangelo alla mano. Cosa possiamo dire di fronte alle mille paure che abbiamo davanti a questo fenomeno?
Dobbiamo avere consapevolezza che oggi noi abbiamo paura. Anzi, abbiamo tante paure: del futuro, della vecchiaia, di un trapasso di come la società oggi comprende l’uomo rispetto al passato... Siamo ad esempio nuovi a questa vecchiaia così lunga, aiutata dal benessere e dalla medicina. All’inizio del ‘900 la media di età in cui si moriva era di 50 anni. Oggi grazie alla medicina viviamo tanto e tutti, me compreso, abbiamo paura della nostra vecchiaia, delle malattie che possono capitare come l’Alzheimer o di una persona anche molto cara che può diventare quasi impossibile da amare per una malattia tipica della vecchiaia in cui si perde il senno e il controllo di sè. Ma abbiamo paura anche di un lavoro ormai sempre più precario per moltissime persone. Infine abbiamo paura degli stranieri e anche questa paura va presa molto sul serio, anche se bisogna subito dire che essa c’è sempre stata. Una volta gli stranieri erano gli zingari. Certo la presenza di immigrati non era così estesa, quotidiana e drammatica come in certi quartieri delle nostre città. C’è poi chi strumentalizza questa paura per motivi politici e questo dobbiamo chiaramente denunciarlo. Ma la paura va ordinata, è un sentimento da non rimuovere ma da affrontare avendo cura di usare gli strumenti più adeguati per non farsi dominare da essa come la capacità di "governance", che oggi non però non vediamo nei nostri politici. Oggi il fenomeno dell’immigrazione è forte ma dobbiamo allenarci perché la società di domani sarà sempre più plurale. Dobbiamo abituarci a fare dei cammini di ascolto, di integrazione insegnando ad esempio la nostra la lingua a coloro che giungono da lontano o comunicare loro le nostre abitudini, insomma offrendo cammini umanizzanti. Le sacche di miseria dove si sviluppa la delinquenza nascono proprio dal degrado nel quale si trovano calati al loro arrivo da noi. Venendo alla nostra identità di cristiani, dobbiamo sempre ricordarci che noi per primi siamo stranieri e nomadi per natura. Anzi, i primi cristiani erano addirittura contenti di chiamarsi “stranieri”. Cercare Dio significa allora cercare l’uomo e la salvezza è andare avanti verso una sempre maggiore umanizzazione di tutti, perché, anche se osiamo sperare che la misericordia di Dio toccherà alla fine tutti, chi si umanizza si salva.


Parliamo della  laicità. Come vede lei il dibattito su credenti e laici nel nostro Paese?
I cristiani, senza neppure teorizzare il concetto di "laicità" hanno in realtà vissuto in un regime di laicità nei primi tre secoli dell’era cristiana. Nella lettera a Diogneto (110-160 d.C. circa) si dice che l’unica differenza tra i cristiani e i pagani è che i primi, a differenza dei secondi, condividono con i poveri e tra loro i beni, non condividono i letti, cioé sono fedeli  al loro coniuge, e non espongono, cioè non uccidono, i figli, soprattutto quelli nati malformi o con difetti fisici. Per tutto il resto i cristiani condividevano in toto l’etica romana e quella greca, che sono etiche molto raffinate. I primi cristiani avevano consapevolezza infatti che l’uomo, creato a immagine di Dio, riesce con la forza della ragione a distinguere il bene dal male. Anche senza Dio, l’uomo ha elaborato dunque bellissime etiche, come ad esempio, per venire a tempi più vicini a noi, il buddhismo. Il Cristianesimo si differenzia dalle altre etiche perché i seguaci di Cristo amano gli ultimi - anche il nemico, cosa che neanche l’ebraismo ammette -, condividono i beni con i poveri e sono fedeli al marito o alla moglie. Questa grande novità è stata portata da Cristo. Per il resto, ripeto, i primi cristiani assunsero l’etica comune, essendo leali, nonostante le persecuzioni, persino verso lo Stato, del quale osservavano fedelmente tutte le leggi. E solo se l’Imperatore ordinava qualcosa di assolutamente contrario alla fede praticavano quella che noi oggi chiamiamo “obiezione di coscienza”, rifiutandosi, ad esempio, di andare in guerra. Poi, con l’avvento della religione di Stato nel 313 d.C. sotto l’Imperatore Costantino, lo Stato, a quel punto cristiano, a partire dal 372 d.C. comincia a perseguitare i non cristiani. In 59 anni, insomma, i perseguitati sono diventati persecutori…  Sarà solo il Concilio Vaticano II, 16 secoli dopo, a dire che la libertà di coscienza deve essere rispettata da tutti e lo stesso Giovanni Paolo II lo ricordava con una lettera nel 2001 ai vescovi francesi. Oggi il tema della “laicità positiva”, che non esclude e non ghettizza nel privato i cristiani, e quello della libertà di coscienza sono temi cari a Benedetto XVI e mi sembra la prospettiva giusta. Dobbiamo ringraziare però anche le filosofie laiche, come l’illuminismo, e i suoi derivati, come la Rivoluzione francese, che hanno introdotto nelle società moderne il fondamentale concetto di “libertà di coscienza”.

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