Monsignor Claude Rault.
Guida
una comunità di qualche decina di cattolici dispersi in un mare di
sabbia. E di islam. Monsignor Claude Rault (o più semplicemente
padre Claude, come lui preferisce essere chiamato), sacerdote
francese della congregazione dei Padri Bianchi, vive in Algeria dal
1971 e da undici anni è vescovo di Laghouat-Ghardaïa, «ma
la mia vera sede è l'automobile», dice scherzando, visti i continui
spostamenti all'interno di una diocesi tra le più vaste al mondo
(2,5 milioni di chilometri quadrati).
Della sua vita padre Claude ha
fatto un incessante cammino di affidamento a Dio (anche se chiamato
con nomi diversi) e un inno alla fiducia nell'uomo. Nonostante le
ferite. Lo incontriamo a Torino, nella parrocchia di Santa Rita,
durante una serata organizzata da Centro Missionario Diocesano,
Ufficio di Pastorale Migranti, Missionari della Consolata e Focsiv,
insieme con i giornali diocesani La
voce del popolo
e La
voce del tempo.
E' anche l'occasione per presentare il libro Il
deserto è la mia cattedrale (2015,
Editrice Missionaria Italiana, 192 pagine), che sintetizza
l'esperienza umana e spirituale del religioso. Di primo acchito
colpiscono gli occhi azzurri, sereni e profondi. Poi il tono della
voce, che resta pacato anche quando affronta argomenti dolorosi.
Uno scorcio del Sahara algerino. In primo piano un curioso cartello che invita quanti percorrono in jeep le carovaniere a prestare attenzione all'attraversamento dei cammelli, che possono costituire un pericolo per chi viaggia. Foto Reuters.
Padre,
dopo i terribili anni '90, segnati dalla guerra civile e dalla
violenza, qual è oggi la situazione della Chiesa d'Algeria? I
cristiani sono in pericolo?
«No,
attualmente non si segnalano particolari situazioni di rischio. A
differenza di quanto accade in altri Stati a maggioranza islamica, la
Costituzione algerina prevede la libertà di coscienza e recentemente
il Ministro per gli Affari Religiosi si è proclamato rappresentante
tanto dei musulmani, quanto di cristiani ed ebrei. Possiamo dire che
il piccolo gruppo di cristiani algerini è parte integrante del
“paesaggio religioso”: abbiamo buoni rapporti col mondo islamico
e di solito siamo rispettati. Ciò è anche dovuto al fatto che la
nostra comunità ha un atteggiamento di apertura e non cerca di fare
proselitismo. Più in generale va osservato che a partire dal 2000,
così come la società civile ha cercato di voltare pagina, anche la
Chiesa si è profondamente rinnovata. Non è più la chiesa
post-coloniale costituita in maggioranza da Europei: attualmente tra
i cattolici di Laghouat-Ghardaïa si contano 18 nazionalità e ora
che, raggiunti i 75 anni, si avvicina il termine del mio mandato,
lascio una comunità composta in buona parte da giovani».
Insieme
al priore Christian de Chergé, lei è il fondatore del Ribat
Es-Salam (Vincolo di Pace), un gruppo di dialogo islamo-cristiano che
ha resistito negli anni, nonostante durissime prove e persecuzioni
(nel '96 il confratello e amico De Chergé, insieme ad altri sei
religiosi del monastero di Tibhirine, è stato rapito e assassinato
da un commando terrorista, ndr). In un momento difficile per il
dialogo interreligioso, qual è l'insegnamento più prezioso che
possiamo trarre da questa esperienza?
«Credo
sia l'atteggiamento reciproco sotteso agli incontri. Non è un gruppo
di discussione, ma di preghiera. E l'obiettivo è prima di tutto
quello di conoscere la religione dell'altro. Ci sentiamo vicini e
uniti in quanto cercatori del Dio unico. Questo ovviamente non
significa annullare le differenze, ma armonizzarle. Prova ne è che
il Ribat non ha mai cessato di riunirsi, anche nei momenti più
drammatici, bui e dolorosi. Tuttora questa esperienza prosegue ed è
radicata in tutte e quattro le diocesi d'Algeria (nella mia comunità
i componenti sono una ventina tra cristiani e musulmani e gli
incontri avvengono due volte l'anno). I momenti forse più toccanti
sono quelli in cui restiamo in silenzio, uniti nella preghiera».
Preghiera serale nel Sahara.
In
varie occasioni ha affermato che il contatto col mondo musulmano è
stato per lei una fonte di arricchimento spirituale. Quali aspetti
dell'islam sente più vicini?
«Un
punto è sicuramente quello della trascendenza di Dio. Certo, in
quanto cristiani noi crediamo nell'incarnazione e dunque in un Dio
fattosi vicino, presente e pronto a condividere il nostro destino. Ma
tutto questo non cancella, anzi, in un certo senso esalta la
dimensione della trascendenza. Un altro aspetto che mi colpisce
nell'islam è legato all'ospitalità. Molte volte sono stato accolto
nelle case dei fratelli musulmani proprio in nome di questa
ospitalità. La persona che bussa alla porta è sacra, è un segno
della presenza di Dio».
Ogni
anno migliaia di persone attraversano il Sahara fuggendo da guerre e
condizioni di vita disumane nella speranza di raggiungere l'Europa. Come si confronta la Chiesa d'Algeria con queste persone?
«La
mia è una comunità piccola e se ci fermiamo al dato numerico ciò
che possiamo fare è davvero poca cosa. Ma nonostante questo abbiamo
cercato di stabilire degli orientamenti pastorali precisi. In primo
luogo apriamo le chiese ai cristiani migranti che vogliano
condividere con noi le celebrazioni. In un mondo nel quale spesso si
sentono minacciati, col costante rischio di essere braccati dalla
polizia, nelle nostre comunità sono liberi di essere se stessi, di
cantare, di invocare Dio, di dialogare. Ma soprattutto portiamo
avanti quella che io chiamo la “pastorale del samaritano”, che
consiste nello stare accanto alle persone più fragili e più sole,
chiunque siano. Spesso i migranti arrivano da noi dopo viaggi
estenuanti che hanno minato la loro salute: cerchiamo di farli
ricoverare negli ospedali, pagando farmaci e spese mediche. Inoltre
abbiamo avviato dei progetti nelle carceri, per aiutare i migranti
che vengono imprigionati e far avere notizie alle loro famiglie, con
cui rischiano di perdere ogni contatto».
Monsignor Claude Rault fotografato nel Sahara.
A
suo avviso che cosa può fare l'Europa per affrontare una tragedia di
queste dimensioni?
«Di
sicuro serve un atteggiamento accogliente, che consideri i migranti
come delle persone e non come un problema. Ma ciò non è
sufficiente, perché in alcuni Stati africani l'Europa e più in
generale i Paesi occidentali hanno delle responsabilità enormi.
Basti pensare alle speculazioni sui prezzi di materie prime come
caffè, cacao e cotone. A farne le spese sono, ovviamente, i più
poveri, come ho constatato di persona in Burkina Faso. Non potremo
mai affrontare la tragedia delle migrazioni se non porremo fine a
queste ingiustizie.
Per
concludere, dopo tante traversie e tante prove, come immagina il
futuro delle comunità cristiane in Algeria?
Rispondo
citando il pensiero di un grande mistico, la cui vita resta
indissolubilmente legata a quella dell'Algeria: Charles de Foucauld.
Anche quando non possiamo parlare di Gesù, possiamo essere una
pagina di Vangelo. Questo è valido in ogni epoca e ad ogni
latitudine. Se siamo un segno dell'amore di Cristo il futuro non ci
spaventa».