Negli anni le iniziative si sono moltiplicate e le amicizie sono diventate più profonde. Don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio ecumenismo e dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana, che nei mesi scorsi è riuscito nella mission impossible di mettere intorno al tavolo le principali famiglie delle Chiese cristiane presenti in Italia, ci aiuta a capire la portata della visita del Papa al Consiglio ecumenico delle Chiese.
Prima di tutto, che cosa rappresenta Ginevra?
«Ginevra rappresenta la patria di Calvino e della sua versione della riforma luterana. Una grande tradizione ecclesiale cristiana, ma anche, da un altro punto di vista, il segno di una ferita, di una cristianità divisa, che nel corso degli ultimi 50-60 anni ha fatto però notevolissimi passi avanti. Anche simbolicamente questa città ha un suo senso. Essendo in Svizzera, che come si sa ha una linea neutrale nelle alleanze tra gli Stati, Ginevra ospita un organismo che non è “politicamente” schierato: il Consiglio ecumenico non è cioè di una Chiesa che ha chiamato intorno al tavolo i fratelli e le sorelle delle altre Chiese, ma è super partes, rappresentativo il più possibile di tutte le tradizioni cristiane».
Cosa fa il Consiglio ecumenico delle Chiese in concreto?
«Gli organismi intraecclesiali e anche transnazionali credo siano indispensabili perché non sono la voce di una sola Chiesa che parla, per quanto provocatoria e significativa possa essere, ma è l’espressione di un numero molto ampio di cristiani. Questo credo sia il fulcro, la cosa più importante, sia a livello di organismi mondiali e rappresentativi, come il Consiglio ecumenico, sia in realtà più piccole, nazionali o diocesane, che mettono assieme cristiani di diverse estrazioni che continuano a vivere con sofferenza le effettive divisioni, ma cercano anche con tutte le loro forze di poter dire qualcosa insieme, come rappresentanti della fede che parte dallo stesso Signore e si basa sullo stesso Vangelo».
Come si è arrivati a questa visita?
«La visita nasce dall’anniversario dei 70 anni del Consiglio ecumenico. Già Paolo VI lo aveva visitato nel 1969, subito dopo il concilio Vaticano II, e più tardi Giovanni Paolo II nel 1984. È segno dell’attenzione della Chiesa di Roma al movimento ecumenico. Anche se Roma non partecipa pienamente all’attività e al lavoro del Consiglio ecumenico, per questioni teologiche su cui non mi dilungo, sa perfettamente che “non possiamo non dirci ecumenici”, per usare il titolo di un testo di Brunetto Salvarani. È impensabile al giorno d’oggi ragionare in termini di cristianità guardando solamente all’interno dei propri confini. E di questo sono consapevoli gran parte delle Chiese cristiane. Quindi la visita di Francesco a Ginevra vuole sottolineare l’importanza di questo organismo e dichiarare il sostegno dei cattolici, attraverso il suo rappresentante principale, al lavoro e all’idea che sta alla base del Consiglio ecumenico. Sarà bello vedere cosa il Papa dirà».
La visita è un ulteriore passo nel magistero ecumenico di Francesco. Quali sono stati i gesti più importanti e come hanno cambiato la lettura dell’ecumenismo?
«L’incontro con il Patriarca di Mosca, all’Avana, nel 2016, è stato un gesto innovativo, sperato da tante parti, che però fino ad allora non si era riusciti a realizzare. Oppure il fatto che il prossimo 7 luglio papa Francesco abbia convocato i capi della Chiese cristiane a Bari per pregare insieme per la pace in Medio Oriente. Sono gesti di grande attualità e provocazione. Che vanno nella direzione di nuove tappe dello stesso cammino. Se in un passato abbastanza recente ci siamo molto spesso fermati ai ragionamenti e alle distanze sulla teologia tra le varie Chiese, papa Francesco ci aiuta a dire che il dialogo teologico va continuato, è fondamentale, ma non può essere l’unico mezzo di trasporto del cammino ecumenico. Ci sono pezzi di strada che possiamo fare insieme, camminando semplicemente fianco a fianco. Accettando la fatica che facciamo per capirci, ma riconoscendo che non è così forte da impedirci di camminare insieme. Anche se sul concetto di Eucaristia, di Chiesa, di ministero non siamo d’accordo, alcune cose, come l’incontro del 7 luglio, le possiamo fare insieme. Continuo a pensare che tutte le volte che cristiani di diverse estrazioni pregano o dicono qualcosa insieme, cercando in quella maniera lì di testimoniare il Vangelo, quella è unità. Non è perfetta e definitiva, ma è un forte elemento di novità».
Come viene vissuto in Italia questo evento di Ginevra? Che sensibilità c’è verso il cammino ecumenico?
«Penso che da una parte c’è tantissima gente che s’interessa e cerca formazione continua nel campo dell’ecumenismo o si rimbocca le maniche, proponendo cammini e percorsi ecumenici nelle varie realtà locali, sia istituzionali sia più semplici; dall’altra è fuori dubbio che l’ecumenismo ha bisogno di essere un po’ sdoganato, di diventare non qualcosa che viene delegato agli addetti ai lavori, ma materia comune e pane condiviso da parte di tutti i cristiani. In altre parole non posso pensare che nella mia diocesi, parrocchia o realtà locale – poiché ci sono alcune persone che si occupano di ecumenismo – non serve che io lo faccia. È la realtà cristiana di sempre, ma oggi ancora di più mi chiama ad avere uno sguardo ecumenico, analogamente a quella testimonianza di carità che mi impone di chiedermi cosa posso fare per il fratello che incontro e che può aver bisogno di me, indipendentemente che sia cattolico, cristiano di un’altra tradizione, non credente… come la carità è al cuore del Vangelo, così lo è l’apertura verso l’altro, cioè l’ecumenismo».