«E comunque, ragazzi,
la vita è bella. Anzi,
bellissima». È mezzanotte
inoltrata,
davanti a una birra e
sotto le stelle di una
serata neanche troppo
calda per il Burkina
Faso. Ouagadougou, la capitale,
che qui tutti chiamano Ouagà, dorme.
E Marco Alban è in vena di
bilanci, come accade talvolta davanti
a una birra dopo la mezzanotte.
Quel “comunque” si riferisce a quanto
raccontava poco prima, ai tanti problemi
e interrogativi che comporta
fare il cooperante in un Paese povero
dell’Africa occidentale, che negli ultimi
quattro anni ha visto la fine di un
regime guidato per 27 anni dallo stesso
presidente, Blaise Compaoré; ha
vissuto un tentato colpo di Stato; ha
subìto un attentato – il primo nella
storia del Paese – da parte di terroristi
islamici, infiltratisi in Burkina dal
Nord del Mali.
Il nostro bar è a pochi metri dall’albergo
da dove sono sbucati i quattro
assassini: in pochi minuti, il 15 gennaio
scorso, hanno fatto una strage. Il
giorno dopo, cristiani e musulmani,
imam e preti erano tutti davanti a
quell’hotel a posare candele e a dire
che l’attentato non era contro gli occidentali,
ma contro tutti i burkinabè.
«Questo c’entra con ciò che siamo a
fare qui», commenta Marco. «Burkina
Faso significa “Terra degli uomini integri”.
Qui non abbiamo mai conosciuto
l’intolleranza religiosa, nonostante la
popolazione sia per il 60 per cento musulmana
e per il 40 per cento cristiana.
E non abbiamo mai avuto problemi di
scontri etnici né di guerre civili».
Questo è il Paese di Thomas Sankara,
il presidente “visionario” che già
negli anni ’80 parlava di pari opportunità,
di tutela ambientale e di lotta alla
povertà. È lui che ha cambiato il nome
da Alto Volta a Burkina Faso. Governò
solo quattro anni, dal 1984 al 1987, poi
fu assassinato. Qui tutti sono convinti
che i mandanti fossero gli occidentali,
contro i quali tuonava per denunciare
il neocolonialismo che a lungo ha
schiacciato nella povertà il Paese, e i
killer gli uomini del suo amico, e poi
successore, Compaoré. «Sankara è ancora
venerato come un simbolo», aggiunge
Marco. «E anche questo c’entra
con ciò che facciamo qui».
Marco Alban è il Volontario
dell’anno, nel Premio bandito dalla
Focsiv (la Federazione delle realtà
di volontariato di matrice cristiana).
Nel 2016 il riconoscimento (che viene
come sempre conferito in occasione
della Giornata mondiale del volontariato,
quest’anno il 3 dicembre) ha
privilegiato i temi della Laudato sì di
papa Francesco, cioè l’ambiente e la
salvaguardia del Creato. Tutte questioni
che sono per Marco Alban e il
team della Lvia il pane quotidiano.
Ma non solo. Il Premio, scegliendo in
modo unanime Marco e l’Ong di Cuneo,
ha voluto anche sottolineare un
altro aspetto: occorrono tempi lunghi
per creare sviluppo, occorre uno stile
di cooperazione che mette radici e che
impara a conoscere profondamente le
realtà in cui opera, occorre uno stile
di intervento che veda nei cosiddetti
beneficiari non banalmente delle persone
da aiutare ma soggetti e collaboratori
con cui costruire futuro.
Famiglia Cristiana, insieme a Tv2000,
è andata a vedere i progetti e a conoscere
Marco e la squadra dell’Lvia. Mentre
il fuoristrada attraversa un tratto di
savana per condurci a Ziniaré – 40 km
dalla capitale – dove l’Ong gestisce alcuni
progetti, Marco racconta. La Lvia
(che quest’anno compie 50 anni)
opera in Burkina da 43, una delle presenze
storiche dei cooperanti di Cuneo,
il terzo Paese dopo il Kenya e il Senegal.
Quarantatré anni è anche l’età di Marco,
torinese, in Africa occidentale dal
1999: cinque anni in Senegal, quasi
quattro in Mali, poi in Burkina Faso,
dal 2007. Sempre per l’Ong di Cuneo.
Quasi metà della sua vita, quindi, l’ha
passata da cooperante. Oltre la metà
da volontario, dato che prima di partire
ha cominciato a lavorare nel Gruppo
Abele di don Ciotti, quand’era neppure
ventenne. «Ma in un certo senso, ho cominciato
a fare il volontario a sei anni»,
aggiunge. «Durante l’ora di Religione
don Giuseppe Riva, il fondatore della
Cisv, ci faceva vedere le foto dei suoi
viaggi in Burundi. Ho ancora stampata
negli occhi un’immagine: poveri banchi
di legno, una moltitudine di bambini,
la classica auletta africana. Quella
foto e tanti altri piccoli semi poi hanno
dato frutto: a 18 anni ero già fermamente
determinato a partire con il
Servizio civile internazionale».
A Ziniaré, sotto un sole che brucia
(siamo sui 30 gradi, nell’“inverno”
del Burkina, per nove mesi all’anno le
temperature diurne vanno dai 40 ai 50
gradi), vediamo la cooperativa agricola.
Un bell’esempio della cooperazione
che mette radici, perché è nata sull’onda
lunga di un progetto della Lvia.
«Una volta concluso», spiega Marcel
Boudà, all’epoca uno dei formatori locali
della Ong, «nel 2001 abbiamo deciso
di riunirci in cooperativa. Siamo
partiti in 350, oggi siamo 7 mila soci».
E lui, Boudà, ne è il presidente. Viene
prodotto sorgo, karkadè, niebè (un fagiolo
locale molto nutritivo), ma negli
ultimi dieci anni anche passata di pomodoro,
di ottima qualità, che viene
acquistata dai migliori ristoranti di
Ouagadougou, lavorata da una cooperativa
di donne. E ora si replica con la
soia, sempre con il sostegno della
Lvia. Per darci un esempio dei risultati
ci fanno assaggiare dei fragranti
panini di soia, appena sfornati.
«La nostra idea costante è che dobbiamo
solo cercare di dare una risposta
ai desideri e al sogno della gente per la
quale siamo qui», spiega Marco. «Se un
villaggio sogna di avere l’acqua lo
devi aiutare ad avere l’acqua. Dobbiamo
solo contribuire al loro percorso,
ma resta il loro percorso. Ed è loro il
sogno che cerchi di realizzare insieme».
«È stato così anche con il progetto
di riciclo della plastica», continua. «Un
giorno mi chiamò il sindaco di Ouagà
e mi disse: “La mia città ha un cancro.
Aiutami a curarla”. Si riferiva alla plastica
buttata ovunque. Con quell’intervento
abbiamo ridotto l’inquinamento,
creato lavoro, innescato una
filiera positiva che fabbrica prodotti
di plastica riciclata. Dopo tre anni l’abbiamo
riconsegnato al Comune, che
ora lo porta avanti autonomamente».
L’ultima trasferta è a Koudougou,
100 km dalla capitale, dove l’Ong piemontese
combatte la malnutrizione
infantile, problema ricorrente in Burkina,
specie dopo la carestia del 2012.
«Anche in questo caso», spiega Alban,
«non guardiamo solo all’emergenza
dell’oggi, altrimenti si riproporrebbe
all’infinito. Insieme a Medicus Mundi
Italia portiamo avanti due interventi:
uno di cura, l’altro di prevenzione.
Curiamo i bambini in malnutrizione
acuta, ma contemporaneamente è in
corso il progetto “1.000 giorni”, che segue
le mamme dal concepimento fino
ai due anni dei bambini, cioè tutto il
periodo più critico e nel quale c’è la
maggiore mortalità infantile».
Alla fine del viaggio glielo chiediamo:
che senso dai, Marco, a questo premio?
«Il riconoscimento è per tutta la
squadra che lavora in Burkina. Gli
espatriati Giorgia, Chiara, Cristina (Volontaria
dell’anno 2008, ndr) e i locali
Jean Paul, Clemence, Joachim, Casimir,
Sylvie e tutti gli altri. Secondo, è importante
dire che bisogna tornare a investire
sulla motivazione delle persone.
Non si può lavorare per una Ong senza
una spinta profonda. Il futuro della cooperazione
si gioca su questo, non sul
numero di master dei cooperanti».
Marco spiega anche la sua, di scelta:
«Ho sempre pensato che puoi fare
il medico, il muratore, l’insegnante…
ma se lo fai per gli altri, il lavoro ha un
valore aggiunto. Io ho scelto il volontariato
internazionale e l’Africa. Volevo
fare una cosa semplice per gli altri».
Perché è meglio farlo “per gli altri”?
«Mettiamola così: è peggio per chi non
fa la mia scelta. E infatti, qui, la vita è
bellissima».
Foto di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto