Ilaria Cucchi è forte come sempre. Anche quando si emoziona di fronte alla vicenda di suo fratello raccontata in un film che è «sconvolgente e drammatico». Gli ultimi giorni di Stefano, «la sua sofferenza interpretata con una sensibilità estrema».
Cosa l’ha colpita di questo film?
«Il modo in cui Alessio Cremonini è entrato nelle nostre vite e il modo in cui ha dato un’anima a Stefano. Queste vicende finiscono sempre per diventare dei casi giudiziari e in questo modo spersonalizzano le vittime. Loro invece sono riusciti a restituire a Stefano e alla nostra famiglia l’aspetto umano».
Dopo tanti anni c’è stata anche una svolta giudiziaria. Come procedono le cose?
«Non posso dire benissimo perché si tratta sempre della morte di mio fratello, però adesso siamo sulla strada giusta. Dopo tanto tempo abbiamo finalmente una ricostruzione della verità dei fatti. Abbiamo alle spalle anni e anni, quasi nove per l’esattezza, di processi sbagliati agli imputati sbagliati con capi di imputazione sbagliati. Oggi, invece, possiamo parlare di un violentissimo pestaggio e, soprattutto, il processo non è a mio fratello, ma a coloro che ne hanno causato la morte con lesioni gravissime».
Sono cadute le omertà?
«Certo, dopo la sentenza di secondo grado del primo processo - quello che assolveva tutti dopo molti anni per insufficienza di prove - e dopo le prese di posizione da parte di tanti esponenti delle istituzioni, dall’allora presidente del Senato Grasso al presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si è rotto il silenzio e coloro che sapevano hanno avuto il coraggio di raccontare. E così grazie a loro, grazie al nostro avvocato Fabio Anselmo che non si è mai arreso, grazie alla procura di Roma, alla squadra mobile che ha fatto un’indagine a 360 gradi, siamo riusciti ad arrivare all’inchiesta-bis. Mi rendo conto che sarà tutt’altro che semplice, ma quanto meno stiamo parlando della verità dei fatti e non di Stefano che sarebbe morto “da solo”. Perché quello che ho visto svolgersi anni addietro è stato un processo al morto. Mi alzavo e andavo alle udienze sapendo che, probabilmente, stavo facendo un torto a mio fratello perché in quelle aule si passava la maggior parte del tempo a processare lui, il suo carattere, la nostra famiglia. Oggi è tutto cambiato e se devo dare un senso a tutta questa sofferenza mi viene in mente quello che Stefano raccontò in sogno al mio carissimo amico Paolo. Gli disse: “Dì a mia sorella che sto bene adesso, dille di andare avanti anche se, probabilmente, non saprà mai quello che mi è capitato e non avrà mai giustizia per la mia morte. Però quello che farà per me potrà servire per tanti altri”. Niente può restituirmi mio fratello o togliere a me e ai miei genitori il dolore per la sua perdita, ma penso che anche questo film sarà uno strumento per dare voce ai tanti altri Stefano, a quanti soffrono, subiscono torture, muoiono nell’indifferenza generale».
Cosa insegna la vicenda di suo fratello, anche attraverso questo film?
«Che quello che è capitato a Stefano ha direttamente a che fare con il mancato rispetto dei diritti fondamentali di ogni essere umano. E che pertanto riguarda ciascuno di noi. Perché anche se al signor Mario Rossi non capiterà mai di essere coinvolto in una vicenda simile, ognuno, nel suo piccolo, deve farsene carico se vogliamo darci una speranza di una società migliore».
Perché è un film da vedere?
«Perché riesce a restituire dignità e umanità a Stefano. Il cinema, come anche le canzoni, sono uno strumento potentissimo per raggiungere la gente. Alessandro Borghi interpreta mio fratello in un modo sconvolgente e trasmette persino a me, che sono sua sorella, esattamente ciò che lui era. Questo film fa capire che non si può tollerare che cose del genere accadano, che non si può smettere di indignarsi di fronte a tragedie come quelle che sono capitate a noi».